Il Romanzo della crisi. Secondo capitolo: morire per l’euro

Creato il 02 agosto 2012 da Albertocapece

Primo capitolo (qui)

Come si è detto la soluzione alla crisi che in Italia incontra più favore è la non soluzione: vale a dire non fare nulla, ubbidire a quanto dice la cosiddetta Europa, sperando di strappare qualche accordo marginale che non faccia impennare lo spread a livelli insostenibili,  pregando che per qualche miracolo vi sia da qualche parte una ripresa, accendendo candele perché un qualche santo intervenga a darci la famosa “più Europa” e per quanto riguarda i vertici di governo avendo fede che il catechismo ripetuto mille volte durante gli anni di vacche grasse sia vero. Uno dei capisaldi del manistream del pensiero liberista è infatti che le crisi non hanno bisogno di interventi pubblici, perché l’economia si autoregola sia pure con sfasature temporali:  bassi salari e disoccupazione comportano anche un calo dei prezzi di produzione dunque  un’aumento del potere d’acquisto dei capitali e una crescita  sia diretta che indiretta della domanda e dell’export. L’ala progressista di questa scuola mainstream ammette che un blando intervento pubblico possa essere necessario qualora, nonostante l’impoverimento e i ricatto del lavoro, continuino ad esservi delle resistenze sindacali e sociali. Non si fa fatica a riconoscere dentro questo vaso di pandora la destra e il centro e la sinistra residuale che abbiamo in Italia.

Si tratta ovviamente di astrazioni, mai empiricamente provate, anzi falsificate da ciò che sappiamo delle crisi storiche e che fra l’altro pongono alcuni problemi concettuali: non è detto che in caso di disoccupazione e bassi salari calino i costi di produzione che anzi potrebbero perfino alzarsi per unità prodotta; visto che poi che la filiera produttiva – distributiva è complessa e contraddittoria nelle sue reazioni, è assolutamente certo che la diminuzione dei prezzi sarà inferiore a quella dei salari innescando un effetto valanga recessivo.  Non è un caso che queste tesi vengano sempre più contestate da eretici o da appartenenti ad altre scuole di pensiero. Sempre che la messa fuori legge di Keynes nella stessa costituzione, non consigli qualche esecuzione sul rogo.

Ho premesso tutto questo, perché si capisca con cosa abbiamo a che fare, il contesto di pensiero o di ottundimento nella  quale si muovono i nostri salvatori tecnici e le manovre che producono.  Della casta che fa sì sì sì come le bamboline di Patty Pravo, non vale nemmeno la pena di curarsi, visto che è in grado di esprimere solo il grido di dolore per la propria sopravvivenza. Il fatto è che però i conti non tornano affatto, anche all’interno di questo paradigma.

Innanzitutto con l’Euro non abbiamo più sovranità monetaria e quindi non disponiamo più dello strumento principe per regolare e reagire sul piano della bilancia commerciale e delle necessità interne, quel meccanismo che ci ha permesso di crescere in passato. Nel tentativo di superare questo handicap giungendo a una sorta di più stretta integrazione europea e dunque monetaria che almeno in parte compensi attivi e passivi fra i Paesi dell’area, ci siamo anche castrati  della sovranità di bilancio e fiscale, una mossa  da ubriachi perché anche nell’ipotesi che esista una qualche volontà di rivedere i trattati da cui è nata la moneta unica, passeranno molti anni prima che ci si arrivi, troppo tempo per un eventuale salvezza. In ogni caso, anche riscontrando la necessità di un processo di integrazione non si baratta mai qualcosa di concreto in cambio di nulla, di vaghi discorsi di circostanza: lo si fa soltanto in cambio di indirizzi precisi  e di una road map della loro realizzazione. Questo è un punto importante perché, come vedremo, si inserisce alla perfezione nel puzzle di una interpretazione politica più che economica della crisi.

Nel frattempo però per salvare l’euro ci siamo impegnati a pagare per un ventennio circa 50 miliardi all’anno allo scopo di riportare il debito dal 123% del pil al 60% oltre a circa 80 -90 miliardi per ripagare gli interessi sul debito pubblico. Una cifra in rapida ascesa visto che i tassi che paghiamo attualmente si riferiscono in gran parte al passato e dunque assai minori di quelli attuali. Inoltre  a corollario di tutto questo sarà giocoforza attingere al bilancio per aiutare anche agli altri: per esempio 17 miliardi per collaborare – secondo quota -al salvataggio delle banche spagnole e tutte le varie ed eventuali che si potranno incontrare. Mica il conto è finito: se mai il meccanismo europeo di stabilità, il famoso Mes, verrà alla luce, un suo eventuale aiuto ci costringerebbe a versare effettivamente nelle sue casse 125 miliardi sull’unghia. Si tratta di somme enormi sottratte all’economia nazionale attraverso la tassazione, la riduzione di pensioni, stipendi, salari, welfare, diritti per mantenere la logica della moneta unica., senza però minimamente toccare nella sostanza la spesa improduttiva e l’esoso conto della corruzione che si attesta sui 60 miliardi annui.  Questo crea ovviamente recessione o addirittura depressione che non solo fa diminuire il Pil, ma tende a far calare  le entrate dello Stato: la cosiddetta credibilità che ci stiamo costruendo a forza di massacri aumenta da una parte, soprattutto dalla parte delle pacche sulle spalle di chi tare vantaggio della situazione, ma diminuisce e in misura più consistente dall’altra.  Secondo Paul Krugmann  e numerosi altri economisti già oggi il livello di interessi che dobbiamo promettere perché vengano comprati i titoli di stato pluriennali prefigura, un default certo dopo alcuni anni di agonia.

Per evitarlo in queste condizioni dovremmo crescere (secondo elaborazioni Ocse) almeno dell’ 1,5% reale ogni anno per minimo un decennio di seguito il che vuol dire, almeno il 4 – 4,5 % nominale ipotizzando un inflazione media  al 2,5%.  Dentro un calo della domanda globale, è semplicemente impossibile, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo. Impossibile anche perché durante l’era Berlusconi e ancor più negli ultimi mesi, vittime dei tagli sono proprio quegli strumenti, scuola e ricerca che sono le premesse per rimanere a galla dentro una moneta forte. E che per noi con pochi grandi gruppi (quasi tutti ancora di stato a sberleffo delle teorie)  e una miriade di piccole e piccolissime aziende con scarse capacità di innovazione, sono ancora più importanti che per altri.

Però di fatto non si fa nulla se non cercare di escogitare modi attraverso i quali surrogare o simulare la funzione di banca centrale della Bce, tutte cose che possono distrarre i mercati per qualche giorno, ma che sono destinati a fallire non perché essi abbiano una scarsa fiducia nell’Italia, ma perché temono che essa alla lunga non sia solvibile in euro, visto che la moneta unica la sta vampirizzando. E poi anche qui quando si invoca un aiuto sugli spread si rimane sempre nel vago: aiuto fino a che punto, a che livello di interesse? Perché se è per farli rimanere sui livelli attuali è francamente inutile se non per la sopravvivenza governativa e sei suoi supporter. D’altronde occorre anche parlar chiaro: la Germania preferirebbe uscire lei dall’area euro piuttosto che mettere in comune i debiti attraverso strumenti in grado di bypassare Maastricht o – a lungo termine- attraverso la revisione dei trattati stessi. Questo infatti provocherebbe inflazione, mentre il modello di sviluppo tedesco è fondato proprio su una pace sociale che in gran parte è garantito dalla bassa inflazione. E’ evidente per chiunque, anche nel campo liberista, che siamo in un vicolo cieco. Per questo la domanda è: a che scopo Bce, Fmi, Commissione europea (la Germania è l’unica che ne trae un interesse diretto)  hanno intrapreso questa strada all’inizio della crisi greca e la portano avanti nonostante il disastro che sta provocando? E perché  le nostre stesse classi dirigenti si sono fatte complici di questo disegno di impoverimento che ha solo il default totale o parziale come suo logico approdo?

Il sospetto che diventa di mese in mese evidenza è  che morire per l’euro o comunque per questo euro ha più un significato politico:   distruggere le conquiste sociali del secolo scorso che a giudizio del liberismo sono dei ceppi messi all’economia.  Diffondendo una grande paura per il presente e una grande paura su un possibile ritorno alle monete nazionali, si ottiene ciò che anche le destre al governo non sono state in grado di fare  e che oggi invece le sinistre consentono e attivamente applaudono: la demolizione dello stato sociale e con esso anche la condizione stessa della cittadinanza. Se poi in questa appassionata opera si distrugge per molte generazioni il futuro di grandi Paesi, pazienza, c’est la vie, anzi c’est la finanza.

Se questo ha un qualche fondamento e a leggere i liberisti, anzi a leggere lo stesso Monti che negli anni ’80 era favorevole a un aumento del debito pubblico perché questo avrebbe messo in crisi le dinamiche sociali, lo ha, bisogna chiedersi cosa comporterebbe un ritorno alla valuta nazionale e se questo sarebbe la catastrofe che ci viene annunciata. Certo molto dipende dal modo e dalle tecniche che verrebbero eventualmente usate, certo non sarebbero rose e fiori, questo è chiaro, ma l’impressione è che la prospettiva sia per il momento demonizzata per lo stesso motivo per cui viene santificato l’euro: l’operazione non si presterebbe alla castrazione sociale.

(continua)


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