Il ruolo dell’editoria industriale

Creato il 09 febbraio 2011 da Libriconsigliati

Art by Quint Buchholz

“La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire.”

Eric Arthur Blair

È argomento assai noto e ampiamente dibattuto quello che vede contrapposte da un lato la piccola editoria, per molti versi attività ancora ampiamente artigianale, e la grande editoria rappresentata da gruppi industriali di rilievo e dalle enormi possibilità di distribuzione (e promozione). La tesi sostenuta da molti è semplice: il mercato editoriale in Italia è inaccessibile alle piccole voci, schiacciate da fenomeni quali il proliferare di catene di librerie sempre più simili a ipermercati del libro e logiche di distribuzione e fruizione delle opere che portano indubbi vantaggi ai grossi gruppi di potere (e nessuno, purtroppo, può dirsi immune dalla necessità di servirsi dei maggiori canali distributivi a disposizione) . Questo è vero, al di là di ogni sostenibile argomentazione contraria, ma non rappresenta il punto focale della mia riflessione. Arrivo subito al dunque, ponendo a me stesso e ai lettori una domanda: qual è, ad oggi, il rapporto che intercorre fra le responsabilità derivanti dal ruolo d’indirizzo nell’ambito della promozione culturale e le conseguenze derivanti dalle logiche insite nel processo di accentramento editoriale?

La logica di mercato imperante contribuisce per una quota assai rilevante alla dispersione di quel pluralismo che da sempre accompagna lo sviluppo di una coscienza critica, della morale di un popolo, ma il timore dal quale scaturisce l’interrogativo posto innanzi è di portata ben diversa, più ampia. Il timore risiede in una constatazione assai banale quanto tristemente attuale, che mi porta a constatare come dovendo perseguire un obiettivo che fa del profitto la ragione stessa dell’esistenza di un’impresa, a lungo andare si possa perdere di vista (quando questo non sia già avvenuto) cosa sia stato in tempi non remoti il ruolo dell’editore nel nostro Paese; mi porta a chiedere se ci sia ancora qualcuno in grado di scommettere senza riserve sulla qualità a scapito della condiscendenza acritica nei confronti del gusto popolare; e a domandare, con forza e risolutezza, se non sia forse vero che un editore dovrebbe prima d’ogni altra cosa stimolare e nutrire il libero pensiero. La non scelta di pubblicare ciò che più aderisce al gusto del momento, ai favori popolari sempre più influenzati dagli stereotipi televisivi, non porta inevitabilmente a modellare in negativo la forma mentis di un’intera generazione disabituata a cercare nel libro un’occasione di arricchimento, piuttosto che un mero momento d’evasione?

Mi chiedo, quindi, quanti e quali editori possano affermare in piena coscienza di valutare, prima d’ogni altra cosa, se un’opera sia meritevole di pubblicazione a prescindere dalla sua aderenza alla tendenza editoriale del momento. Senza dubbio questa ormai rara tipologia d’uomini esiste e resiste, eppure anche fra loro in molti potrebbero muovere un’obiezione tanto immediata quanto realistica al mio ragionamento: purtroppo, pur non volendo prescindere dagli ideali e dalle speranze di ognuno, l’obiettivo necessario di una casa editrice è e resta vendere libri. Niente di più vero, nulla di più attuale. Ma perché ritenere che accanto alla logica del profitto non possa trovar posto, sempre e comunque, un’altra forma di pensiero che prende le mosse dal ruolo stesso che s’imporrebbe alla figura dell’editore e che ruota attorno a un principio cardine e immodificabile, assoluto qual è il dovere di promuovere la cultura?

Ammettiamo che il mio sia null’altro che un ragionamento utopistico e che il dualismo qualità-profitto, che si riflette nella portata del penoso e debilitante impatto con il mercato con il quale ogni editore, dal più piccolo al più imponente, deve fare i conti, non sia affatto superabile in tempi brevi. Resterebbe comunque da chiedersi cosa resta dei grandi editori di un tempo se tutto ciò a cui possiamo aspirare è, in definitiva, adeguare a tal punto la linea editoriale al gusto del non-lettore da alimentare noi stessi la proliferazione di titoli destinati al fruitore occasionale, muovendoci come ingabbiati in un circolo vizioso senza fine. E allora, se la piccola e media editoria deve combattere giorno dopo giorno per la sua stessa sopravvivenza, non sarebbe forse il caso che prima fra tutte fosse la “grande editoria industriale” a occuparsi maggiormente, proprio grazie a quella posizione dominante di cui gode, di limitare azioni di dispersione del patrimonio letterario italiano e di privilegiare il ruolo d’indirizzo culturale che dovrebbe esserle proprio?

Roberto Giungato


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