Mario Monti
di Paolo Pini
L’Agenda Monti (http://www.agenda-monti.it/) fa riferimento all’Accordo sulla Produttività firmato dalle parti sociali il 21 novembre 2012. Nella sezione Rivitalizzare la vocazione industriale dell’Italia, si afferma:
“Serve infine lavorare sulla produttività totale dei fattori e sul costo del lavoro per diminuire quel divario con gli altri Paesi europei che crea uno squilibrio di competitività. Bisogna quindi continuare sulla strada del decentramento della contrattazione salariale lungo il solco dell’accordo tra le parti sociali dell’ottobre scorso”.Un concetto simile si trova nella sez. La riforma delle pensioni e del mercato del lavoro.
La visione che emerge nell’Agenda Monti è solo in parte condivisibile. Premettiamo che il decentramento contrattuale non deve essere demonizzato. Ha sempre permesso di migliorare le condizioni di lavoro ed anche le condizioni di produttività e competitività dell’impresa. Oggi bisogna riprendere la crescita della produttività e il recupero di competitività dell’apparato industriale nazionale. Tale obiettivo non può che reggersi su due pilastri, il contratto nazionale ed il contratto decentrato. Ed il metodo è quello della concertazione.
E’ significativo che nell’Agenda la funzione della contrattazione nazionale non sia neppure richiamata, e che la concertazione non sia indicata come metodo di lavoro. Quindi l’obiettivo della crescita della produttività e del recupero della competitività delle imprese dovrebbe reggersi solo sulla contrattazione decentrata. In ciò vediamo una continuità piuttosto che una discontinuità con il governo precedente. Non ci sembra un caso che, sull’art. 8 della legge 148 del 2011 (governo Berlusconi), quello che prevede che i contratti aziendali o territoriali definiti di prossimità, possano derogare con efficacia erga omnes non solo da quanto previsto dai contratti nazionali, ma anche da disposizioni legislative, il governo Monti non sia mai intervenuto per abrogarlo.
Ma la contrattazione decentrata sul salario copre una quota piuttosto contenuta delle imprese. In gran parte del tessuto produttivo, il pilastro su cui Monti fa affidamento non esiste. Qui allora dovrebbe operare il contratto nazionale di lavoro che ha funzione di garanzia di minimi di trattamento economico e normativo prevedendo tutele e diritti, ma dovrebbe anche avere l’obiettivo di crescita della produttività e recupero della competitività. A questo livello, sarebbe più opportuno porsi un obiettivo programmato di produttività, e utilizzare varie leve, fra cui le decisioni di innovazione organizzativa e tecnologica, gli investimenti e le risorse pubbliche e private in R&S (ricerca e sviluppo) e per l’innovazione di prodotto e di processo. E quindi collegare a questo obiettivo l’andamento delle retribuzioni. Queste svolgono così una duplice funzione, da un lato di tipo redistributivo – che è essenziale per sostenere la crescita dei salari reali e quindi fonte principale della domanda interna di beni e servizi – dall’altro di stimolo e pressione per il cambiamento tecnologico ed organizzativo delle imprese, come argomentava Paolo Sylos Labini (Nuove tecnologie e disoccupazione, Laterza 1989), richiamando gli economisti classici, da Smith a Ricardo a Marx. In questo modo si possono recuperare i due pilastri, quello della contrattazione decentrata e della contrattazione centralizzata, naturalmente con un metodo, che non può che essere quello della concertazione e della condivisione di obiettivi concordati.
Ciò che emerge dalla Agenda Monti è una concezione di salario flessibile legato alle performance delle imprese estremamente tradizionale, che fonda la sua efficacia su meccanismi di incentivazione dello sforzo lavorativo senza fare i conti con concezioni di impresa più moderne centrate sul modello delle competenze oppure su meccanismi di suddivisione del rischio, e senza introdurre alcuna forma di partecipazione nei processi decisionali. Essa appare anche più riduttiva rispetto all’Accordo sulla Produttività, che certo non brilla per innovatività. Questa concezione evidenzia come il fine ultimo della retribuzione flessibile sia la riduzione del costo del lavoro e per questa via la diminuzione del costo del lavoro per unità di prodotto, senza innescare alcun meccanismo virtuoso sul denominatore della frazione, ovvero la produttività.
Lo strumento delle retribuzioni variabili nell’ambito della contrattazione decentrata potrebbe sortire effetti efficaci sulla dinamica della produttività. A tal fine occorre anzitutto che esso venga portato fuori dal campo delle ideologie e dei luoghi comuni che lo presentano come la panacea al problema del declino, e che venga introdotto come premio di partecipazione con quelle caratteristiche distintive che le riflessioni scientifiche e le evidenze empiriche, da Einaudi in poi, hanno da tempo prescritto. Solo in tale ambito il salario variabile potrà contribuire – come uno ma non certo l’unico degli strumenti – a fermare il declino dell’apparato produttivo italiano.
* Per una versione più ampia di questo articolo, vedi Sbilanciamoci del 27 dicembre 2012.
Il salario di produttività nell’Agenda Monti P.Pini