Eppure oggi l'ardore della conoscenza o anche solo la conoscenza in sé, che non si nutre necessariamente di particolari entusiasmi, sono considerati essi stessi le malattie: non si ha il coraggio di conoscere, si pensa che una nozione di cultura in più non sia utile, ma anzi, dannosa, come se il nostro cervello e la nostra vita potessero saturarsi di pensieri.
Una domanda è ricorrente fra gli studenti (ma non solo): «A cosa mi serve sapere questo?». Si cerca una motivazione pratica per la conoscenza, non si è appagati più nemmeno del fatto che apprendere una determinata informazione possa garantire un diploma. No, si vuole vedere un'utilità immediata, qualcosa di tangibile, visibile, palpabile e consumabile, non c'è l'idea che un'informazione in più possa produrre un arricchimento interiore (anche temporaneo), che possa contribuire a formare il pensiero critico, che dia colore alla personalità.
Se a quelle stesse persone che sono convinte dell'inutilità del sapere (tutto o in parte) chiedessimo se, allora, non sia inutile anche ricordare risultati di partite di calcio o appassionarsi all'intera produzione musicale di un cantante, la risposta sarebbe diversissima. Come se sapere una cosa impedisse di conoscerne un'altra, come se esistessero nozioni dannose. Non mi aspetto, ovviamente, che tutti si dimostrino entusiasti per lo studio o che la maggior parte delle persone considerino Torquato Tasso più degno di memoria del loro divo preferito, ma non riesco nemmeno a capacitarmi del disprezzo che molti tendono a manifestare verso l'apprendimento e verso coloro che lo coltivano con passione o, semplicemente, con moderata attenzione.
A. Rodin, Il pensatore (1901)
'Sapere' ha, nella sua origine etimologica latina, un profondo legame con la sapidità, con il sapore: la conoscenza è considerato un condimento dell'essere umano, qualcosa contribuisce a definirne l'identità. Non significa che vi sia un discrimine fra chi dispone di maggiori o minori conoscenze o fra chi orienta il proprio sapere in una direzione anziché in un'altra. Semplicemente, trovo che disprezzare le possibilità di nutrire il nostro pensiero e di imparare (anche laddove un limite personale ci impedisca di riuscirci pienamente) significhi auto-denigrarsi, calpestare una risorsa che, come avevano già evidenziato gli illuministi, è in possesso di ogni essere umano ed è il fondamento stesso dell'uguaglianza e della dignità.
Sapere una cosa in più mi è sempre sembrato preferibile, anche in mancanza di un'utilità pratica, al sapere qualcosa in meno, ho sempre ritenuto 'Il Sapere per il Sapere' una straordinaria conquista e, a questo proposito, non posso che pensare alla citazione di Cioran con la quale Calvino chiude la sua premessa a Perché leggere i classici?:
«Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando unʹaria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere questʹaria prima di morire”»E voi, care civette, cosa ne pensate?
C.M.