E’ uscito questa estate per Gargoyle Books, Il Sapore della Vendetta, romanzo autoconclusivo di quella che viene definita “una delle voci più originali del fantasy contemporaneo”. Siccome ancora non avevo letto la prima trilogia (La Prima Legge) – la più famosa – di Joe Abercrombie, ho pensato di iniziare da qui. Per sviscerare meglio questo libro, le peculiarità dell’autore e tutto ciò che è legato al mondo della traduzione, ho avuto modo di conoscere e intervistare Edoardo Rialti che ne ha curato l’edizione italiana. Grazie a lui approfondiremo la conoscenza di questo romanzo da un punto di vista privilegiato, in questa intervista doppia: la prima parte sarà su Il Sapore della Vendetta, la seconda sugli aspetti che concernono il lavoro di traduzione dei libri in lingua, argomento che mi ha sempre incuriosita. Inutile dire che è davvero interessante, oltre che lunga: Edoardo è stato fantastico (e decisamente paziente) nel rispondere a tutte le mie curiosità.
Ecco quindi le informazioni e l’intervista che mi ha concesso!
Primavera in Styria. E vuol dire guerra. C’erano stati diciannove anni di sangue. Lo spietato Granduca Orso è in lotta con l’Alleanza degli Otto, e insieme hanno macchiato di rosso la terra bianca. Mentre gli eserciti avanzano, le teste rotolano e le città sono in fiamme, dietro le quinte bancari, preti e forze antiche e oscure giocano una partita mortale per scegliere chi sarà fatto re. La guerra potrebbe essere un inferno, ma per Monza Murcatto, la Serpe di Talins, la mercenaria più celebre e temuta alle dipendenze del Duca Orso, è un modo dannatamente buono per fare soldi. Le sue vittorie, però, l’hanno resa troppo famosa, per i gusti del suo committente. Tradita, buttata giù da una battaglia e lasciata a morire, la ricompensa di Murcatto è un mucchio di ossa rotte e una fame ardente di vendetta. A qualunque costo, sette uomini dovranno morire. Tra i suoi alleati: l’ubriacone meno affidabile della Styria, il prigioniero più pericoloso, un assassino ossessionato dai numeri e un barbaro che vuole solo fare la cosa giusta. Il numero dei suoi nemici è almeno la metà della nazione. E tutto questo prima che l’uomo più pericoloso del mondo venga mandato a cercarla e a finire il lavoro che il Duca Orso ha iniziato… Primavera in Styria. E vuol dire vendetta.
Curiosità – La copertina che vedete qui sopra è della versione americana ed è stata realizzata dal bravissimo artista Gene Mollica. Per saperne di più trovate qui il suo sito e qui un’intervista recente. Sono sue le copertine di autori come L.A. Banks, Patricia Briggs, Richelle Mead e Kevin Hearne, solo per citarne alcuni tradotti anche in Italia.
- Innanzitutto, è per me un vero piacere avere ospite su Wonderful Monster Edoardo Rialti, qui in veste di traduttore ma anche scrittore, biografo di Tolkien, docente di Letteratura Comparata in Italia e in Canada e curatore di letteratura inglese per Rizzoli, Mondadori, Gargoyle, Marietti, San Paolo, Lindau. A questo punto, benvenuto!
Grazie a te, Erika, dell’invito! ne sono molto onorato e felice. E poi, a pensarci bene, come avrei POTUTO rifiutare? Chi, come me, è cresciuto con draghi e orchi, e deve al fantasy alcune delle ore più importanti e intense della propria vita, lo sa da sempre, nel sangue, che i mostri sono meravigliosi! Eccome!
- L’occasione di questa intervista è l’uscita de Il Sapore della Vendetta di Joe Abercrombie (Gargoyle Books) di cui hai curato la traduzione. Si tratta di uno standalone, uscito dopo la trilogia che lo ha fatto conoscere e amare in tutto il mondo, “La Prima Legge”. Ho visto sul tuo blog (qui l’articolo) che hai intervistato Abercrombie proprio a proposito di questa uscita. Qual è stata la tua impressione, prima ancora di leggere il libro?
L’intervista ad Abercrombie è stata una conseguenza del lavoro di traduzione. Avevo dedicato parecchi mesi al suo romanzo, amandolo immensamente già prima di tradurlo, e ne avevo di domande da fargli, da “lettore al quadrato”, visto che in fondo anche questo è un traduttore: un ri-ri-rilettore, che spende giornate intere a ripercorrere le pagine, le frasi, e quindi passa parecchio tempo in compagnia di quelle scene e di quei personaggi. Avevo scoperto la “Prima Legge” tempo prima, e aveva superato a pieni, pienissimi voti “la” prova definitiva del GRANDE LIBRO, secondo me: mi faceva sogghignare di piacere anche quando il mio ennesimo treno era-ancora una volta!- in ritardo, perché questo avrebbe voluto dire più tempo per continuare a leggere. Ecco un fantasy duro, intenso, magnificamente ben scritto, che fa sorridere, riflettere, sghignazzare, commuovere, proprio come la stoffa vera della vita. Ecco, soprattutto, un grande narratore. Abercrombie è stato proprio la buona stella anche all’origine della mia collaborazione con Gargoyle. Li sono andati a trovare al Salone del libro di Torino, per attestargli il mio entusiasmo, come lettore, traduttore e critico per il lavoro che stavano facendo nei campi delle nuove voci dell’horror, della fantascienza, del fantasy, pubblicando opere davvero audaci. E poi loro, cosa di cui gli sono davvero grato, mi hanno fatto salire a bordo, e tradurre “Il sapore della vendetta”.
- Si può dire che Abercrombie faccia parte di un genere letterario che viene definito “grimdark”, ovvero un fantasy moderno, realistico, spietato e dalle chiare connotazioni dark, più vicino ad autori come George R.R. Martin che il “padre” letterario del fantasy, Tolkien. Cosa caratterizza il genere che Abercrombie rappresenta e cosa lo distingue dai grandi del passato che lo hanno preceduto?
Domanda molto difficile, perché in fondo i grandi narratori superano sempre gli steccati, talvolta necessari, in cui tendiamo a incasellarli. La stessa definizione di “realistico” è un piano inclinato, perché chi può dire che Tolkien o la LeGuin non siano “realistici”? L’intensità della vita è in essi assolutamente presente. Nessuno che abbia letto Tolkien camminerà più in bosco nello stesso modo; in un certo senso “vedrà di più” quello che è già inerentemente presente. E quanto a cupezza anche voci non certo recenti come Howard o Peake non scherzano, e lo stesso Tolkien, nel ’54, dovette difendere il libro dall’obiezione di essere…. troppo cupo! Credo si tratti sempre di una questione di prospettive. Per citare quanto ha scritto un autore DAVVERO grimdark come R. K. Morgan [sopra, la copertina di Sopravvissuti, recentemente pubblicato da Gargoyle, ndr] – che consiglio a tutti, se avete fegato per dei fantasy duri, intensi e senza sconti- “The only thing that’s really happened in fantasy is a diversification of form – something for everybody, a spectrum of story-telling reflecting a spectrum of demand.” Più che una definizione generale, mi risulta più facile provare a descrivere Abercrombie con delle immagini o una strana, fosca ricetta, da calderone delle streghe di Macbeth: provate a immaginare Tolkien mescolato con Tarantino. Aggiungete la violenza realistica di “Vikings”, personaggi ricchi di sfumature alla Martin, e l’attenzione che serie come “Madmen” o “House of cards” o i romanzi di Ellroy dedicano al peso effettivo del denaro. Abbondare con spezie come umorismo nero, sesso senza sconti, citazioni letterarie e cinematografiche, spesso genialmente ribaltate o distorte in una prospettiva inattesa. Innaffiare d’azione e svolte, battaglie e dialoghi brillanti. Servite freddo.
Come vedi, anche in questo caso il rapporto con i grandi nomi del fantasy “tradizionale”- di cui anche Martin in fondo costituisce il padre di una nuova stagione- è sempre forte ed evidente. Anzi, come ha detto giustamente Abercrombie stesso, solo chi ama e conosce davvero il western classico alla Ford può provare a raccontare le pieghe, le alternative, le ombre che si annidano e fanno capolino in quelle versioni così limpidamente classiche di un archetipo narrativo. Ed eccoti un Sergio Leone, magari.
- Il tema del libro, come annunciato anche dal titolo, è la vendetta. Un sentimento “negativo” così come i protagonisti del libro sono degli “anti-eroi”. Esempi di questo genere si trovano in pellicole e libri di grande successo. Secondo te, come mai riescono ad avere questo appeal sul lettore/spettatore?
Gran bella domanda, visto che è dai tempi di Omero, con Odisseo che torna a casa, getta via gli stracci laceri e fa strage dei Proci, o dell’ira di Achille che zampilla come lava incandescente, per poi arrivare a “Amleto”, “Rigoletto” o “V per vendetta”, che la vendetta-appunto- continua a toccare un nervo scoperto dentro di noi.
Il grande narratore noir J. Nesbo ha detto qualche tempo fa qualcosa che mi ha colpito al riguardo: egli sosteneva che la vendetta è uno dei tratti più umani che abbiamo, perché palesa la capacità umana di astrazione. A differenza di molte specie animali, che sono davvero coraggiose nel difendere magari i propri piccoli, noi non ci limitiamo a combattere quando c’è ancora una possibilità di proteggere o salvare qualcuno o qualcosa di caro, lo facciamo anche dopo che quel bene pare perduto per sempre. Ci vendichiamo. Questo perché è come se volessimo ribadire che le azioni hanno sempre e comunque delle conseguenze.
Questo mi pare un elemento certamente presente. Inoltre ritengo che ci affascini molto- con me sicuramente è così- quella che chiamerei la “sindrome di Montecristo”. Tutti ci sentiamo o ci siamo sentiti feriti, per questo o quel motivo, e l’immagine narrativa dell’uomo che subisce un torto, pare sprofondare nella sconfitta e invece resiste, avanza strisciando, di umiliazione in umiliazione, fino lentamente a risorgere, temprato, più forte e magari con l’ausilio di mezzi inattesi e certamente una volontà di ferro, ci tocca profondamente. E’ come un archetipo che contiene molto più della somma degli elementi che possiamo elencare. Ci vediamo riflessa ed espressa una qualità perenne dello spirito umano. La capacità di incassare. E tornare, con un potere rinnovato, a fargliela pagare.
- A proposito di personaggi: quali – anche non necessariamente i principali – ti hanno particolarmente colpito e perché?
Certamente la grande sfida narrativa del libro poggiava in gran parte sulla protagonista, la mercenaria Monza Murcatto (a lato nell’immagine tratta dalla copertina americana del libro, ndr), ed il suo tormentato rapporto con le principali figure maschili della sua vita, dal fratello al mentore Cosca, fino al suo amato-odiato ultimo datore di lavoro, il Duca Orso. E Monza come personaggio funziona, eccome. Avverti, nei gesti, nel suo parlare a scatti secchi, rabbiosi, tutta la straziante pesantezza di una vita “sempre in armatura”, la solitudine di chi “deve” mostrarsi duro, distante e finisce sempre sul piedistallo degli eroi o sui volantini con cui si maledicono i criminali di guerra. E quanto le due cose possono alternarsi con impressionante velocità. Ma questo romanzo comprende anche il mio personaggio preferito tra quelli di Abercrombie, il vecchio mercenario ubriacone Nicomo Cosca, con la sua inarrestabile carica di simpatia anche nelle peggiori vigliaccherie. Per quanto mi riguarda la colonna sonora dei “Pirati dei Caraibi” H. Zimmer non l’ha scritta per il Jack Sparrow di J. Depp, ma per Cosca! E poi ci sono anche l’avvelenatore Morveer con la sua puntigliosa, petulante voce “da scorpione”, come l’ha definita Abercrombie stesso, e un “cattivo” malinconico ed elegante come il Generale Ganmark. Come lo splendido, fosco personaggio di Ringil nei romanzi di R. K. Morgan, anche Ganmark è omosessuale. Ma diverso sia da Ringil che dall’ormai celebre Loras del “Trono di spade”. Una bella sfida linguistica poi è stata rappresentata dall’unico o principale straniero del romanzo, il “nordico” Brivido, la cui parlata cambia di pari passo con il suo cammino nella storia. Un cammino che, come diceva lo stesso Abercrombie, “lo porterà in luoghi parecchio oscuri“… e anche le sue parole cambieranno…
- Mi incuriosisce molto l’ambientazione creata da Abercrombieche, come tu stesso hai sottolineato, ricorda molto l’Italia del Rinascimento. Ce ne vuoi parlare?
In questo romanzo in particolare non ci troviamo nella monarchia dell’Unione, né nel gelido Nord in rivolta, o nel vecchio Impero. Siamo in Styria, una terra più meridionale di fiorenti città-stato, perennemente impegnate a fare e disfare alleanze, proprio come la ricca, sontuosa Italia di Machiavelli, Cesare Borgia e Guicciardini. Ritroviamo le stesse piccole e grandi beghe, gli stessi assedi, avvelenamenti, voltafaccia e gli stessi stratagemmi che costituiscono la trama di quella nostra storia così fulgida e seducentemente fosca, e in fondo di tutta la storia umana. C’è tutto lo spessore della vita vera. Anche nel romanzo di Abercrombie incontriamo figure che sarebbero state perfettamente calzanti tra i vicoli di Roma, Firenze o Ferrara: mecenati, ubriaconi, mercenari, prostitute, predicatori religiosi. E banchieri. E forse la lama più affilata è stretta dalla mano più impensabile…
- Un ultima domanda sul libro, se vuoi, un po’ insidiosa: perché leggere Il Sapore della Vendetta di Joe Abercrombie?
La risposta, con le storie davvero belle e grandi, è semplice: diavolo se vi piacerà! O in questa coppia avverbio-aggettivo: ferocemente bello. Se volete un romanzo divertente, ricco d’azione, complesso, audace, magnificamente ben scritto eppure che vi fa correre di scena in scena, eccolo. Io gli devo alcune delle miei migliori “risate malvagie” di sempre, ma anche più una morsa allo stomaco per la pietà, o la commozione. E non sono il solo. Se non credete a me, che proprio per questo motivo gli ho dedicato sei mesi della mia vita gustandomi ogni singolo giorno di lavoro, anche intenso, beh, credete al “re” del fantay G. R. R. Martin, uno che di intrighi, violenza e narrazione se ne intende, e che l’ha definito il libro migliore di Abercrombie. Se questo libro è stato amato da chi ha inventato Tyrion, Cersei e Daenerys, beh…
- Ed eccoti qui, invece, in veste soprattutto di traduttore. Per collegarci però all’argomento precedente, so che hai appena concluso la traduzione di un romanzo che troveremo in libreria tra qualche mese, sempre di Abercrombie e molto atteso. Ce ne vuoi parlare? In fondo è uscito solo da pochi giorni anche in lingua inglese.
Il nuovo romanzo di Abercrombie si chiama “Half a king”, uno “Young Adult” che apre una sua nuova trilogia, che ha per protagonista un giovane che parecchi motivi-fisici e psicologici- parrebbe la persona meno adatta a dover salire sul trono di un piccolo regno simile a quello dei vichinghi delle saghe nordiche. Ma la vita è fatta di imprevisti, e proprio il giovane Yarvi, con la sua mano storpia, si troverà ad andare dove non avrebbe mai creduto di finire. In un viaggio che comprende piratesse ubriache, guerrieri senza nome, antiche rovine elfiche, battaglie religiose e l’onnipresente forza di gravita di quella piccola cosa luccicante e micidiale che si chiama…oro.
- Una sfida, senz’altro, per Abercrombie quella di scrivere per un pubblico Young Adults mantenendo le proprie caratteristiche. Esperimento riuscito?
Assolutamente sì, lo attesta ancora una volta la vera e propria pioggia di elogi che ha salutato l’uscita del libro da parte di “stregoni” del calibro di G. R. R. Martin, R. Hobb o, per restare nel mondo degli YA, il Patrick O’Riordan di “Percy Jackson”. Non vedo l’ora di riscontrare le reazioni dei lettori italiani. In fondo poi i bei libri “funzionano” sempre, e come diceva il Lewis di “Narnia”, un libro non merita di essere letto a 10 anni se non merita di essere riletto a 50. La ricchezza dell’immaginazione narrativa di Abercrombie c’è ancora una volta in piena gloria, e non richiede affatto al lettore adulto di “regredire”. Semmai mi viene da dire che avrei voluto averne, di libri così a 12 anni! Niente risulta seducente e invitante per un ragazzo o una ragazza come una sfida ad alzare l’asticella di ciò che viene proposto loro. “Gira voce” che sia proprio così che si cresce!
- A proposito di Young Adults. Il genere di Abercrombie si potrebbe definire “duro” mentre in Italia siamo abituati ad una letteratura YA che risulta essere abbastanza edulcorata. Cosa ne pensi del genere in Italia e della sua evoluzione (involuzione?) nell’ultimo periodo?
Ritengo che opere come “Half a king” costituiscano una sfida salutare. Ci è molto, troppo facile trasformare i ragazzi in una categoria di lettori- mi verrebbe quasi da dire “creature”- a parte, da tenere nella bambagia, senza sottoporli allo “stress” delle tematiche conflittuali. Ma basta ricordarci chi eravamo per renderci conto della falsità di una simile prospettiva. Come diceva la grande narratrce Flannery O’Connor, chiunque sia sopravvissuto alle medie ha materiale sufficiente per una vita di scrittura, il che vuol dire che uno ha già incontrato, eccome, il bene e il male, il desiderio e la sofferenza, la vigliaccheria e il coraggio dentro e fuori di sé, le grandi domande e le fin troppo facili risposte con cui spesso la società pensa di risolverle. E la grande letteratura “per ragazzi” non ha mai aggirato tematiche simili, anzi le contiene tutte. Persino quando si tratta di bambini; basta aprire i Fratelli Grimm, e fiabe come “Il Ginepro”, per trovarci davanti storie, tematiche e persino dettagli narrativi che molti penserebbero inadatti a un pubblico di ventenni! Come diceva Lewis non è l’intensità o persino la violenza della storia che “fa male” ad un ragazzo, semmai la distorsione del quadro umano che viene presentato. Proprio per questo egli si sentiva di consigliare ai ragazzi “Il serpente Ouroboros“, una specie di Signore degli anelli riscritto “alla Nietzsche”, e non certe storielle melense di amoretti scolastici o vittorie sportive. Come diceva Pasolini la volgarità in arte è in fondo uno sguardo razzista all’oggetto in questione. “50 sfumature di Grigio” non è “brutto” perché è un libro erotico… magari lo fosse! Più semplicemente è un brutto libro e basta. In definitiva quindi ritengo che certa narrativa per ragazzi sia scadente non nelle sue riletture “diventati grandi”, ma di per sé. Salgari, Dumas, Dickens non hanno date di scadenza. E così anche opere ben più recenti come R. Sutcliff o l’appena uscito P. Brown. Che in Italia, tanto per restare nell’ambito del fantasy, si possa fare opere di narrativa nel buon vecchio stile (azione tosta, dialoghi serrati…) e al contempo di alta qualità letteraria (non cerebrale) lo dimostra “Terra Ignota” di Vanni Santoni [qui trovate l'intervista in audio realizzata in occasione dell'uscita di questo libro, ndr], che io ho amato moltissimo con i miei (ben portati) 32 anni, ma che sarebbe stato splendido leggere anche a 15.
- Negli anni hai tradotto autori molto diversi tra loro, come si fa a mantenere la voce “unica” di ognuno? Quali sono state o sono le maggiori difficoltà nel lavoro di traduttore?
La traduzione è sempre ed anzitutto un’operazione “critica”, e come quando recensisci un libro la qualità di quello che proponi dipende credo fondamentalmente da tre elementi: onestà intellettuale, disponibilità a palesare la voce dello scrittore con attenzione e spirito di servizio (domandarsi sempre e comunque DAVVERO VOLEVA DIRE QUESTO? DAVVERO?), cultura generale (quante cose sulle navi vichinghe mi sono letto! E adesso che sto traducendo fantascienza chi mi avrebbe mai detto che avrei ripreso i libri di fisica…aaaargh!), sensibilità personale, mi verrebbe da chiamarla “empatia”. Certo posso tradurre anche una storia che non amo, ma personalmente deve scattare qualcosa in me, anzitutto come lettore, per spronarmi con intensità ancora maggiore a rendere al meglio le sfumature, i dettagli, di ciò che di un autore mi ha affascinato e preso. L’immaginazione si accende, e trovi soluzioni interessanti e personali, che in questo senso costituiscono una “riscrittura” che non è affatto un tradimento. Ed è lì che entra in gioco la “tua” voce. Che essa non risulti un velo sull’originale o uno specchio deformante dipende in gran parte da quanto ami, quanto tieni che la forza e l’autenticità del testo originale “passi” nella lingua della tua gente. Quindi direi che le difficoltà di una traduzione sono inscindibili dalle sue bellezze; come camminare in montagna o nuotare in mare: fatica e fascino spesso non sono affatto separabili, anzi ci sono delle fatiche che non baratteremmo con nessun piacere a buon mercato. La fatica creativa per me è assolutamente una di queste gioie. l’ho già detto altrove: tradurre un grande romanziere è davvero come viaggiare in compagnia di uno spadaccino micidiale, e fargli da scudiero. Osservandolo combattere, studiando le sue mosse al rallentatore, provando a tua volta ad imitarlo, ne impari di trucchi, e al contempo rimani davvero ammirato dalla complessità celata dietro azioni-o frasi- che sembrano così facili, naturali, spontanee. Ma come si dice nella mia Firenze “fallo te!”
- Tra le tante attività sei anche un docente: ti capita di parlare del tuo lavoro di traduttore con i ragazzi? Di cosa significa “tradurre”? Come mi dicevi telefonicamente qualche giorno fa, fondamentalmente anche quando si legge un testo in italiano ciascuno “traduce” quello che legge attraverso la propria esperienza, la propria storia di vita.
Ne parlo molto spesso con i ragazzi, ad esempio facendo dei piccoli seminari di traduzione de “Lo Hobbit” di Tolkien, ed è davvero divertente vederli riscoprire il gusto di qualcosa che spesso fanno quotidianamente “subendolo” neanche fosse una condanna ai remi (e certi insegnanti sono pure peggio dei pirati; quelli almeno non sono MAI noiosi!). In effetti il primo capitolo de “Lo Hobbit” con Bilbo che esclama “Buon giorno” e Gandalf che gli domanda “Che cosa vuoi dire?” (“What do you mean?”) è un capitolo davvero meta-letterario che tocca il grande problema del significato delle parole. Leggiamo in inglese e cerchiamo di capire quali sarebbero le parole migliori per rendere le frasi, i personaggi. Ed eccoli accorgersi che questo sorta di “giallo” contiene una sfida affascinante, e che non tutte le opzioni sono uguali, e che due diverse possibilità sono come due direzioni diverse nel bosco, e palesano una tua scelta, cioè anche un’interpretazione. Basti pensare che in Italia Gandalf non è un “mago”, ma uno “stregone”! E spesso in queste nostre scelte si palesa anche il nostro bagaglio di esperienze culturali o esistenziali. Noi traduciamo in continuazione: se io dico “mare” due lettori diversi di questa intervista “vedranno” due mari diversi; magari uno penserà d’istinto a una costa sabbiosa e un altro a una rocciosa. Questo bagaglio di esperienze è una ricchezza da cui partire, ma non a cui fermarsi. Anzi, il grande vantaggio del leggere una bella storia è che essa è al contempo un viaggio fuori e dentro di noi, proprio come il canto dei nani che porta Bilbo a uscire di casa “risvegliando il suo lato Tuc”, quello audace, avventuroso. Troviamo tutto quello che è già presente in noi, eppure quelle stesse parole, immagini lo amplificano ed approfondiscono. Ci portano agli estremi confini di noi stessi, ci fanno sbirciare fuori di noi, immedesimandoci con qualcuno di diverso, scoprendo le sue ragioni, la sua sensibilità. Eppure tutto questo risulta al contempo come una intensificazione della nostra stessa vita. Chi legge molti libri vive molte vite, e scopre che magari dentro di sé alberga qualcosa di Anna Karenina, l’Innominato o Orlando Furioso. E la traduzione è parte significativa di questo movimento interiore. Non a caso significa “trasportare”!
- Siamo arrivati quasi in fondo a questa intervista ma mi sembra il momento opportuno di farti una domanda che ci riporta, invece, alle origini. La tua è una vita – si può dire – dedicata interamente alla letteratura: quando e come è nata questa passione? Quando hai pensato potesse davvero diventare un lavoro?
Chiamala pure orgogliosamente ossessione! Francamente non ho memoria di quando sia iniziata. Piuttosto l’amore per le storie- e in particolar modo per i racconti d’avventura e magia-c’è sempre stato. Certo, ricordo benissimo la prima volta che ho letto una versione dell’Odissea per ragazzi o “Il Signore degli Anelli”, e il “brivido” che in entrambi i casi mi faceva capire che stavo maneggiando qualcosa che non avrei mai più smosso di cercare, ancora e ancora e ancora. Io ho bisogno di storie: che si tratti del Messico dei trafficanti di Don Winslow, o un viaggio interstellare, o un romanzo storico, datemi una storia. Meglio se lunga, ricca, da gustarmi su un’amaca d’estate o accanto al camino d’inverno, mentre le ombre si allungano. Qualche tempo fa ho incontrato di nuovo il mio pediatra che mi ha detto: “Ma lei è un caso pazzesco: praticamente continua a fare quello che faceva da piccolo, gioca con i mostri e i cavalieri! Io mica giocavo con lo stetoscopio!” Non so se fosse un complimento o una constatazione sottilmente inquieta, ma sì, ho tutta la fierezza di dire: gioco con i mostri, i pirati, i re, gli incantesimi. E continuerò a farlo fino alla fine. Devo a quelle storie così tanto, e se le mie traduzioni, le mie recensioni o le mie lezioni all’università fanno scoprire a qualcun altro il gusto e la compagnia di amici come Tyrion, Cersei, Frodo, Artù, Long John Silver o Cosca beh, allora ho fatto quello che dovevo. E mi sono divertito da matti.
- Infine, ci piacerebbe sapere su cosa stai lavorando e se leggeremo anche qualcosa di tuo in futuro.
Mi sto dedicando ad un bel romanzo di fantascienza: Red Rising di P.Brown. Per quanto ami il genere l’ho sempre tradotto meno del fantasy, e quindi costituisce una bella sfida linguistica, anche perché l’inglese permette dei composti “pseudo-scientifici” molto agili, espressivi ed eleganti. Come renderli in italiano? Finito Brown mi rituffo nel secondo volume della trilogia YA di Abercrombie, “Half the world”. In contemporanea dovrò seguire l’uscita, questo settembre, della mia biografia letteraria di Tolkien, “La lunga sconfitta, la grande vittoria” (ed. Cantagalli) e due opere del mio amatissimo O. Wilde. Insieme a questo carrozzone di guerrieri nordici, astronavi, tazzine di porcellana vittoriane ci sarebbe anche la mia, di scrittura! Sono alle prese con un romanzo breve e uno moooooolto più lungo. Cercando di ritagliarmi una giornata settimanale solo per loro. Tradurre grande narrativa è certamente un’azione creativa (nelle scelte del tono, dello stile…) ma per chi scrive opere proprie è un pò come la storiella biblica di Giacobbe che va a letto non con la donna di cui si era innamorato, ma con la sorella che lo inganna col favore delle tenebre notturne. Le assomiglia, ma non è lei! Questo delicato equilibrio “da poligamo” spesso è una faccenda complessa, ma ancora una volta molto bella. L’ho già raccontato altrove. Anche nei momenti di maggiore stanchezza, e il lavoro serio e intenso spesso ne offre, posso sempre fermarmi e dire: Ok, sono tre ore che cerco di rendere la voce, il tono, le parole di un gigantesco e crudele re del Nord, ma se avessi tutto il pomeriggio libero, cosa farei? Beh, andrei in cerca di una bella storia, e niente mi farebbe più felice di incontrarci proprio un gigantesco e crudele re del Nord!
Joe Abercrombie (1974) dopo aver lavorato come montatore freelance e produttore televisivo comincia la stesura della popolarissima trilogia epic-fantasy La Prima Legge (pubblicata fra il 2006 e il 2008), per la quale è stato candidato al prestigioso John Campbell Award come Miglior nuovo scrittore fantasy.
È fra gli autori della serie della BBC The Worlds of Fantasy, insieme a Michael Moorcock, Terry Pratchett e China Miéville. Il suo primo libro pubblicato in Italia è The Heroes (Gargoyle 2012). Con Gargoyle ha inoltre pubblicato i tre volumi della trilogia La Prima Legge: Il Richiamo delle Spade (2012), Non prima che siano impiccati (2013) e L’ultima ragione dei re (2014).
Vive a Bath con la moglie e due figli. Questo è il suo sito: http://www.joeabercrombie.com/.
Edoardo Rialti (1982) ha 30 anni e continuerà ad averli, perché ha un ritratto che invecchia in soffitta al posto suo. E’ docente di Letteratura Comparata in Italia e in Canada, ed è traduttore e curatore di letteratura inglese per Rizzoli, Marietti, San Paolo, Lindau. Vive (in treno) tra Firenze, Roma e il mare. Per Cantagalli ha pubblicato “L’uomo che ride” e “Un’ infinita sorpresa”, biografie letterarie di G. K. Chesterton e C. S. Lewis che raccolgono le puntate uscite tra il 2010 e il 2012 sul Foglio. Ritiene che l’alcool, in analogia col divino, non risolva i problemi, ma li renda più affrontabili. Come i Greci ama lo sport e le chiacchierate, ma a loro differenza considera la matematica una corruzione egizia. Godersi sia Proust che Stephen King, Platone e George R. R. Martin costituisce per lui segno di grande equilibrio mentale. Questo è il suo sito: http://www.edocentrico.it/.
Titolo: Il Sapore della Vendetta
Titolo originale: Best Served Cold
Autore: Joe Abercrombie
Traduttore: Edoardo Rialti
Editore: Gargoyle
Collana: Extra
Pagine: 796
Prezzo: 24,00 (E. 20,40 su Amazon)
Data di uscita: 30 aprile 2014
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