Non so. C’è quel vecchio proverbio sul fingere di non vedere un elefante in un negozio di cristalli, o qualcosa di simile, ma forse ne ho mescolati due assieme. Ecco, mi è sembrato che sarebbe stato molto opportuno tralasciare coscientemente di ricordare che J. K. Rowling è l’autrice della saga di Harry Potter e iniziare ad analizzare il suo ultimo romanzo, il primo per adulti. Così, in genere, si tende a fare, visto che tra la saga e il romanzo non ci sono grandi legami e può essere superfluo continuare a citare le ovvietà.
Ci sono, però, due considerazioni che mi hanno trattenuto e fatto decidere di impostare una lettura del testo proprio ricordando il grande maghetto. Innanzitutto, la casa editrice (Salani Editore, per l’Italia) è perfettamente consapevole che la fama del personaggio precede l’autrice; con grande onestà, molti hanno acquistano o si sono procurati il romanzo per il nome della Rowling, perché, semplicemente, hanno intenzione di leggere qualsiasi cosa lei scriva. C’è la curiosità, innegabile, di vederla all’opera in un campo tanto diverso da quello della letteratura per ragazzi; c’è forse anche la speranza (tradita, per altro) di ritrovare qualcosa della magia di Hogwarts all’interno di Pagford, il borgo inglese in cui è ambientata la storia. E l’editore, come dicevo, lo sa: una copertina rossa, contornata di giallo, su cui campeggiano titolo e nome dell’autrice. Non ci si può permettere un’elegante operazione grafica di questo tipo se non si è certi che il libro venderà; ed è giusto e normale che sia così.
Apriamo poi una seconda pista. Ho come avuto l’impressione che la Rowling faccia di tutto per spingerci a dimenticarla quale autrice di Harry Potter; non si tratta di un giudizio di valore sulla qualità, quanto di una sorta di analisi delle tecniche narrative e tematiche. Il seggio vacante (trad. di Silvia Piraccini, Salani editore, 2012) è anzitutto un romanzo polifonico, o meglio corale, in cui è impossibile rintracciare un vero protagonista; a meno che non si decida di scegliere Barry Fairbrother, la cui morte, nella seconda pagina del libro, dà il via alle danze della storia. Attorno a questo primo episodio se ne incatenano molti altri, che vedono l’apparizione di numerosi personaggi, adulti e ragazzi, uomini e donne, di diverse estrazioni sociali, legati tra loro da relazioni variegate: Samantha e Miles, ad esempio, formano la coppia che soccorre Barry e la moglie, Mary; ma si dà il caso che il padre di Miles, Howard, sia anche il nemico politico di Barry, che a sua volta… e via così. Si tratta di una modalità narrativa rintracciabile, al cinema, nella commedia inglese e americana: tanto per citarne due, Love actually del 2003 o La verità è che non gli piaci abbastanza del 2008. Si aggiungano, poi, le tematiche. Sesso, droga, centri di recupero, tradimenti matrimoniali, prostituzione, pornografia, corruzione, psicologi per il disagio, parolacce: nulla di tutto ciò era presente, com’è ovvio, nella saga per ragazzi. A Pagford, invece, non manca nulla, senza che tuttavia la storia sia pesante o falsa. Anzi: arrivando al punto, il merito della Rowling è di essersi dimenticata di Harry Potter e di aver scritto un romanzo molto diverso, che si occupasse in particolare dell’Inghilterra contemporanea nello specifico e, in seconda istanza, della realtà che tutti noi oggi possiamo vivere.
Per essere chiari: non credo di avere tra le mani un capolavoro. Un bel romanzo, scritto bene, anzi benissimo; una storia avvincente, personaggi molto ben delineati e approfonditi, la capacità di vedere oltre la realtà che ci circonda e di crearci degli strumenti per orientarci meglio, un’ambientazione quasi perfetta e molto vivace, un ritmo gestito con maestria difficilmente imitabile. Ma la mia domanda è, purtroppo, sempre la stessa: se lei non fosse lei, avrei letto lo stesso il romanzo? E mi sarebbe piaciuto così tanto? Come dire, Harry ha lasciato il suo segno ancora una volta; forse, il seggio vacante del titolo potrà essere occupato, nel cuore e nella mente di molti lettori, solo e sempre da lui.
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