Il Segreto Per Stare Bene Ovunque (e Divertirsi Ascoltando i Taxisti)

Creato il 16 novembre 2013 da Sunday @EliSundayAnne

A tutti gli espatriati può capitare di finire – per caso o per scelta – in un paese che non sia il massimo dell’allegria e vitalità. A me successe in Cina: partita con un contratto per lavorare un anno in una bella scuola di Pechino, fui spedita invece in una scuolaccia nella periferia di tutt’altra città (Ningbo). Nessuno parlava una parola di inglese. Per le strade ero guardata come un’aliena. Non c’erano svaghi (se si escludono il karaoke locale e una fantomatica scuola di danza afro-araba-jazz-classica-cinese). E, soprattutto, il contesto lavorativo era da fuga a gambe levate. Che fare? In quei casi, prima di pensare al suicidio, bisogna giocare l’unica carta possibile, ci si deve servire dell’unica arma veramente valida per sopravvivere alla disperazione: il senso dell’umorismo.

La scrittrice afro-americana Maya Angelou disse “If you don’t like something, change it. If you can’t change it, change your attitude“: se non ti piace qualcosa, cambialo. Se non lo puoi cambiare, cambia la tua disposizione mentale. Da espatriata seriale, vi assicuro che questo è l’unico segreto per stare bene ovunque.

Tutto attorno a voi vi sembra deprimente, e la mattina aprendo la finestra vi sentite già avviliti? Ricordate cosa scrisse Italo Calvino: “Tutte le città hanno angoli felici, basta riconoscerli“. Forse non era mai stato a Ningbo. Io sono d’accordo, e aggiungo: create questo angolo felice dentro la vostra mente, poi andate all’esplorazione. E guardate con senso dell’umorismo anche le persone: ne usciranno situazioni interessanti. E la salute vi farà un inchino.

In Oman, il senso dell’umorismo mi aiuta soprattutto nelle situazioni di apatia e malcontento: svegliata ogni mattina alle cinque dal muezzin, circondata spesso solo da uomini  (troppi) e donne in veste nera (quando le vedi), senza mezzi pubblici e senza un lavoro che mi soddisfi, se non guardassi alle situazioni come guardassi un cartoon, non sarei più qua. O forse sarei qua, ma al centro di salute mentale. Supposto che ne esista uno.

Vi descrivo quindi una mia giornata-tipo, o meglio, la mia giornata di ieri: se non fosse per Calvino, sarei già in volo per Londra.

La mattina è cominciata col sole, il che non è una novità: qui piove raramente, ma almeno è cominciato l’inverno. Ventotto gradi, dunque, e un sacco di cose da fare. Per esempio la doccia, quindi mi precipito in bagno e apro l’acqua, che questa mattina è fredda. E io non ho lo scaldabagno. Quindi mi rivesto e scaldo dell’acqua col bollitore elettrico, che verrà rovesciata nella bacinella, e avanti popolo: una bella doccia da savana africana con la spugna in una mano e il mestolo dall’altra. Che bello, mi dico, mi sembra di essere tornata bambina, quando, per risparmiare, lo scaldabagno si accendeva solo raramente, e la mattina ci si lavava con l’acqua del bricco. Si comincia la giornata!

Prima di uscire, una bella colazione. Arrivo in cucina, e con mio grande stupore trovo il lavandino pieno di piccoli di scarafaggio. Niente da fare, non c’è metodo che abbia ancora funzionato contro questi orrori alati che mi fanno sempre ribrezzo. In Cambogia, almeno, ne trovavo solo uno ogni tanto, intontito, nella mia valigia, oppure appostato dietro il wc. Decido quindi di debellarli con l’acqua (con disgusto, lo ammetto), e poi mi faccio scaldare due fette di pane tostato. E proprio mentre il miele scende sul pane, noto dei puntini rossi colare giù insieme al liquido dorato: cosa saranno mai? Un’osservazione attenta mi consegna alla vista una colonia di formiche rosse, di dimensioni assai ridotte: le sfortunate hanno trovato la via per il miele infilandosi nel beccuccio, ma poi sono annegate in quel mare di dolcezza. La prossima volta lo metterò nel frigorifero.

La giornata promette bene! Indosso una gonna lunga nera, la maglietta rossa, mi profumo e mi incenso, e sono pronta per uscire. Prendo il sacchetto dell’immondizia, chiudo la porta di casa e butto il sacchetto nel cassonetto. Apro la borsa per metterci le chiavi di casa dentro e… dove sono le chiavi? Nooo, sono finite nel cassonetto insieme all’immondizia! Erano nella stessa mano, Gesù! Torno al cassonetto, nel quale fortunatamente ci sono solo un paio di sacchetti chiusi e tre lattine, e vedo la mia chave là in fondo, nel lerciume. Il cassonetto è però profondo, e sebbene mi sporga al massimo, non riesco ad afferrarle. Che fare? Provo a piegarlo verso di me. Niente da fare, non ci riesco. In quel momento passa un omanita sulla trentina, col dishdasha bianco e immacolato e il turbante viola, la cui scia di profumo mi invade (piacevolmente) le narici. Mi dispiace farlo precipitare dal profumo alla monnezza, ma non posso fare altrimenti. Quindi sfodero il mio sorriso migliore e gli occhi da gatta e gli dico “Excuse me? I have a problem, could you help me please?”. Il ragazzo mi guarda come gli fosse apparsa la Madonna di Lourdes, e con uno sguardo tra l’ebete e il sognatore mi si avvicina sornione. E nel giro di due minuti – volente o nolente – si ritrova con il cassonetto dell’immondizia tra le mani, che si rovescia a terra facendo rotolare il contenuto dei sacchetti (che nel mentre si sono aperti) proprio sulle mie chiavi, e anche un po’ sui suoi sandali. Prendiamo quindi una (sporchissima) bottiglia di platica, e con quella cerchiamo di spostare le chiavi. Poi mi sporgo e le afferro. Recuperate! Saluto con calore il mio (ora schifato) salvatore, salgo in casa, mi lavo, e torno in strada. Che inizio promettente!

Cerco di prendere un taxi per andare da un tour operator che mi sta aspettando, ma non ne passa manco uno. Però si fermano una manciata di omaniti misti offrendo passaggi e How are you?, e perciò salgo sul Land Cruiser Prado di un uomo sulla sessantina, che guarda caso sta proprio andando nella mia direzione, e si offrirà pure di aspettarmi. Poichè so che ne avrò per le lunghe, me lo scollo con un Thank you very much it was a pleasure meeting you e lo lascio al suo destino. Finite le mie faccende, devo ora andare al Ministero del Turismo per un’informazione. Di taxi manco l’ombra, ma il passaggio stavolta mi viene offerto dalla versione indiana di Gabriel Garko, che scoprirò essere di una simpatia travolgente. Il tragitto (a bordo di un’automobile degna delle strade di Calcutta) si compie ridendo, e arrivo a destinazione con l’offerta di un lavoro presso la ditta di suo padre (posto che ne abbia una), di una possibilità di ottenere la residenza, e, volendo, anche di affittare una macchina presso un suo amico di Mumbai, a prezzo stracciato. Ci scambiamo quindi il numero di telefono, e lo lascio al suo destino.

Scendo, e mi chiama dal finestrino della macchina: “Lisbett!” – Sì? – Tirati giù quella maglia che è salita sul fianco, o mi farai impazzire tutto l’Oman!

Entro al Ministero, di cui noto subito l’opulenza e la bellezza, tutto è splendente e maestoso. Che meraviglia i ministeri omaniti! Chiedo di parlare con una certa Alia. Quale Alia?, mi sento rispondere: ce ne sono tre. Poichè mi hanno solamente dato un nome e un indirizzo, spiego di cosa ho bisogno. E tutti e tre i ragazzi al bancone delle informazioni scoppiano a ridere: ma questa è una banca! Il Ministero è dietro questo edificio. Rido anch’io, ed entro nella porta posteriore, dove in un ufficio dimesso vengo ricevuta dalla cara Alia: qui almeno, di Alia c’è solo lei.

Ora devo andare dall’altra parte della città, e finalmente si ferma un taxi. Felice, mi seggo dietro sui sedili rivestiti dal cellophane, gli dico dove voglio andare e mi rilasso. Per poco, però: possibile che qui la maggior parte dei taxisti chattino su WhatsApp-aggiornino Facebook-parlino al telefono, il tutto guidando con la scioltezza di Shumaker?

Però poi Atta si rivela essere un ragazzo alquanto simpatico nel suo inglese stentato, tanto che si lascia andare alle confidenze:

- Non mi piacciono le ragazze omanite – Ah no? E come mai? – Non sono serie, hanno tanti boyfriends e ti prendono in giro. – I ragazzi invece sono seri, qui? Non hanno svariate girlfriends? – Bè, sì, alcuni ne hanno, ma io sono serio. – Capisco… – Vorrei una ragazza europea. (e intanto mi osserva con occhi caldi dallo specchietto) – Ah bene, spero la troverai! Quanto anni hai? – Ventidue. E tu? – Quaranta. – Oh my God, potresti essere mia mamma!

Ecco. Quando in Oman dico la mia età, è sempre uno shock. Per gli altri. Chissà che idee si fanno in testa quando mi vedono, e poi quando scoprono che non sono più una studentessa, lo stupore (e la delusione – seppur momentanea) illumina i loro occhi. Sì, potrei essere tua mamma. No, non sono sposata. Sì, sono fidanzata. E no, non ti lascio il mio numero.

Ad Atta però decido di lasciarlo: mi sembra affidabile e abita nel mio quartiere, è quindi un potenziale taxista di fiducia nei momenti di bisogno. Poi lo lascio al suo destino.

Sono le 17.30 e il sole è ormai tramontato. Ciò che dovevo fare l’ho fatto, ed è ora di tornare a casa: non c’è niente di meglio di un simpatico taxista chiacchierone per concludere la giornata in bellezza, no? Però preferisco, stavolta, prendere un taxi collettivo, ovvero not engaged, che mi costa meno e sul quale non sono obbligata ad ascoltare vita, miracoli e conquiste del taxista di turno. Fermo un taxi collettivo, il pachistano seduto davanti mi lascia il suo posto e sale dietro, e poi via per le strade del quartiere Ruwi, tra l’odore di ascella e di fritto. Scendono tutti e due, e rimango sola col taxista. Stupita, gli chiedo: “Ma non era not engaged?“. No, cara: not engaged fino a Ruwi, ma per portarti ad Al Khuwair il taxi è tutto per te.

E così eccomi qui, in compagnia di Abdullah, che prima di partire mi offre un buonissimo (e fortissimo) tè karak, che appoggia sul cruscotto mentre guida con la lentezza di un bradipo per le strade di Muscat. Perchè però, stranamente, guida lento? Perchè deve raccontarmi tutta la sua vita, scoprirò ormai in viaggio. Ed è la prima volta che trovo un omanita che, anzichè parlare con tono pacato, urla.

- Io sono divorziato! – Ah, sì? – Mia moglie era iraniana! E tu? – Io sono italiana – Beautiful! Milano? Roma? – No, Torino – Ah Torino! (e finge di sapere dove sia) – Io ho una casa grandissima a Teheran! Tre camere da letto, due salotti, tutta per me! – Ah bene… – Quando vado in Iran, tutti mi accolgono come un re! – Tutti chi? – I miei amici, i parenti della mia ex moglie! – Wow, che bello… – Io qui in Oman ho una palazzina vicino a Muscat, l’ho comprata io! – Ah, bene… – Se vuoi venire con i tuoi amici, non ti faccio pagare! – Ah, grazie… – Se vuoi ti organizzo un viaggio in Iran, viaggiamo con la scorta! – Ma veramente io in Iran sono andata già due volte, e da sola… – Ma con me è diverso! – Ah bè, lo immagino… – Se vuoi la residenza in Oman, ci penso io! Io ho tre business, qui! – Ah, che business? – Business… – Ma se hai tre business, come mai fai il taxista? – Perchè mi diverto! – Ah ah! (non potevo più trattenermi dal ridere) – Se hai bisogno di un visto per Dubai io te lo do, ho un business a Dubai! – Veramente io a Dubai entro senza visto… – Una volta sono andato in Ucraina e i miei amici mi hanno organizzato il viaggio là, ci aspettavano col kalashnikov e sai quanto mi sono divertito, ogni sera due ragazze diverse! – Ah, quindi pagavi perchè venissero con te – (abbassando il tono) bè… sì… ma pagavo poco, però! Alcool, ragazze, che vita! Eccoci, siamo arrivati! – Quanto fa? – Niente! O dammi quello che vuoi tu!

Pago, scendo, e mi sento chiamare dalla macchina “Ellissabeth!” – Sì? – Ti lascio il mio numero, per qualunque cosa, qualunque problema, chiamami, risolvo tutto io!

Entro in casa sfinita, e mi butto sotto la doccia fredda: che giornata! Mentre mi asciugo, sento arrivare due messaggi su WhatsApp: uno è di Gabriel Garko: “Andiamo a cena?”. L’altro è di Atta: controllo, e vedo che mi ha mandato otto fotografie sue, una in primo piano, una a cavallo, una col dishdasha, una in jeans, una alla guida mentre parla al cellulare, più delle foto miste di lui che beve il succo di cocco. Accompagnate dal seguente messaggio: “Quando ci rivediamo?”.

Meno male che potevo essere sua madre.


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