Khazan Gul Tani / © 2014 weast productions
Domani nel Senso del taccuino sulla Regione: Un vecchio senza paura. Qui di seguito il solito estratto:
Rivedere una persona che hai incontrato per la prima volta quando era vicina alla morte tanto così non è come rivedere un vecchio amico. È di più. Un proiettile gli aveva appena trapassato un polmone: il paramedico dell'esercito americano stava urlando nella radio di bordo dell'ambulanza che c'era un foro d'entrata in alto a sinistra sul petto e un foro d'uscita in basso a sinistra nella schiena. L'autista teneva gli occhi sulle buche nel terreno, le sospensioni della jeep mandavano un rumore d'inferno. Ululavano. Sulla barella era sdraiato un uomo con la barba bianca, la pelle cotta dal sole, un corpo magro che assorbiva ogni scossone. Si lamentava il meno possibile, concentrato nello sforzo terribile di non mettersi a urlare. Tossiva, faticava a respirare, dalla gola usciva un gorgoglio soffocato di sangue e saliva. Lo stavo filmando, passando da un primo piano del suo volto ai piedi, alle mani del paramedico che infilava un ago, metteva della garza sulle ferite. Ero atterrato qualche giorno prima nella base operativa dell'esercito americano a Khost, nell'Est dell'Afghanistan. Eravamo appiccicati alla frontieta pachistana. La base aveva un nome familiare: Salerno. Il nome e basta. Il resto era un incubo: razzi e mortai che cadevano ogni giorno dalle colline circostanti. Aspettavo un elicottero che mi avrebbe portato nel posto di combattimento avanzato Herrera. Ammazzavo il tempo, come si dice. Anche se, a Salerno, rischiavi di essere ammazzato tu dal tempo: più passava, più ci andavi vicino. Quel giorno finii vicino alla vita di Khazan Gul Tani, nel momento preciso in cui stava riflettendo se abbandonare il corpo asciutto di quel signore oppure restare. Alla fine, la vita decise di restare.