Il sentiero sul costone

Creato il 16 febbraio 2011 da Barbaragreggio
La strada in salita s'inerpicava su una collina disordinata e malconcia, i rami spezzati degli abeti pendevano verso il vuoto, solleticando la cima di uno scoglio. L'alone bianco della luna sputava un cerchio di luce sulla scalinata dismessa che portava al piccolo convento dei capuccini. Camminavo piano, alternado ai passi delle lunghe pause di terrore. Le imposte che davano sul porto erano chiuse, dagli usci accostati scappava qualche lucicchio di candela accesa. Non incontrai nessuno.Maria dormiva quattro vie più in alto, nella nostra casa sulla rocca. Respirava piano nel sonno, si addormentava guardando la statua di San Francesco che riempiva il vuoto della finestra a sud. Aveva capelli lunghi e sottili, intrecciati sotto le scapole, ai piedi portava zoccoli di legno e pelle, li sbatteva a terra con grazia e pudore. Era giovane, nonostante fosse già madre di due bambini: i miei. Michelangelo e Leonardo, li avevamo chiamati così nella speranza che nei loro nomi si nascondesse un qualche talento che li avrebbe condotti verso un futuro migliore. Giocavano sulla spiaggia ogni pomeriggio, dopo la scuola. Gettavano frammenti di lavagna oltre gli scogli, armeggiando con delle canne di bambù logore e ammuffite. Giuliano era alto una spanna più di me, nei suoi occhi c'era il dolore di un rimpianto, unito alla disperazione di un rifuto. Sul polso sinistro aveva un'ampia cicatrice irregolare, la nascondeva con un fazzoletto legato stretto. Si narrava di un passato misterioso, di navi fantasma e pirati vestiti di nero. Le fantasie popolane lo facevano sembrare affascinante. Nella proibizione si celava il piacere, e lui lo aveva imparato in fretta. Decine di donne si alternavano da anni tra le pareti della sua casa in montagna. Le collezionava come conchiglie sulla spiaggia. Non le amava, ovvio. Se ami una donna non puoi costringerla a vivere nel peccato di una lussuria promiscua. Aveva dei figli, belli come lui. Nascevano a nidiate di quattro o cinque per volta. In paese c'era chi lo invidiava, uomini ormai avanti con gli anni che avrebbero pagato casse piene di monete d'oro pur di fare a cambio con la sua vita. Non io. Io avevo Maria e non desideravo altro. Giuliano era un uomo strano, ma buono. Gli ero amico dai tempi dell'infanzia, eravamo cresciuti insieme, svezzati al seno di una sola madre, la mia. Donna Concetta, sua madre, era morta di parto.Accelerai il passo, infilandomi nel buco dentro la collina, arrancando oltre il primo passo sul mare. La sterpaglia si annodava alle caviglie, faticavo a mantenermi in equilibrio. Minerva faceva scudo alla luna, il profilo frastagliato del colle gettava ombre taglienti sul sentiero. Avanzai zittendo la voce della mia coscienza, incapace di voltarmi e tornare indietro. Arrivai in cresta che la notta scivolava verso il fondo del mare, le prime luci dell'alba rischiaravano gli arbusti, la rugiada brillava rotonda sulle foglie ricurve. Nel cuore batteva il respiro di Maria.Scesi il costone a nord e mi diressi verso la piccola golena del Frammezzo. Il fiume scorreva placido, sottile come un torrente, piatto come il mare di settembre al tramonto. Mi sciacquai il viso, e subito un brivido corse lungo le dita. Nella pozza d'acqua che stava tra le mie mani vidi il volto vecchio e raggrinzito di mio padre. Ingollai il ricordo del nostro passato, le gocce che si liberarono dalla mia presa corsero a bagnarmi la camicia. I sassi della casa si illimuninavano di screzi dorati, dall'interno saliva il vociare sommesso di donne e bambini. Lo vidi attraversare il cortile con indosso un cappello di paglia a tese larghe. Sulla spalla sinistra portava appeso un fucile a canne mozze. Camminava veloce in direzione del vigneto, il vento premeva sul suo viso aghi di marzo. Mi abbassai fino a sdraiarmi sull'erba. Strisciavo come un verme nel fango, divincolando il bacino contro il terreno sconnesso del sentiero. Il sudore scendeva veloce, nelle tempie rombava il suono di un tamburo. D'un tratto tutto si fece nero. Affondai la mano nei pantaloni e strinsi forte. Il grilletto si spostava senza opporre resistenza, ad ogni respiro si alzava verso di me. Giuliano si girò di scatto, vedevo i suoi occhi rossi iniettati di veleno posarsi sulla schiena nuda di Maria. Aveva i calzoni calati sulle scarpe, i mutandoni arrotolati sotto le ginocchia. I glutei stretti e alti, pronti a colpire. Maria era alla finestra, i capelli sciolti. Guardava il tramonto annegare oltre l'orizzonte, amava quell'ora della sera. Voltandosi a cercare la spazzola il suo busto si offrì ai miei occhi. E a quelli di Giuliano. Lei urlò di spavento e vergogna, lui le si gettò sul seno con la bocca spalancata. Gli avevo affondato un pugno sui reni, facendolo accasciare e rotolare a terra. Si era scusato, lui, io giorno dopo. Aveva farneticato di un sogno ad occhi aperti, del vino, della sbronza, del suo scarso senso di orientamento.No, non lo avevo perdonato. Voleva rubarmi la donna, il mio amico Giuliano. Lo vedevo ora, vestito per la caccia, ma io sapevo com'era sotto quell'abito, potevo indovinare le curve dei suoi muscoli sotto i calzoni, il suo sesso eretto pronto ad affondare la sua violenza nella carne morbida della mia Maria.Chiusi gli occhi e premetti a fondo, contavo a ritroso numeri in disordine. Attendevo un tonfo sordo, il rinculo sulla spalla, l'odore della polvere sulle dita.Nessun rumore si alzò in aria quel mattino, né i mattini a venire.Barbara Greggio

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