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di Giovanni Inzerillo
In un articolo apparso su «Repubblica» l’8 ottobre 2009 intitolato La geniale arte della menzogna, Umberto Eco, pur creando una curiosa corrispondenza con la musica dei Beatles, in merito al Serpente utilizza la assai efficace metafora del «pesce che a poco a poco divora se stesso sino a svanire del tutto».
Siamo nel 1966, agli esordi della carriera letteraria di Malerba – di poco precedenti erano i bizzarri e secchi racconti della Scoperta dell’alfabeto pubblicati nel 1963 – e immediatamente dopo la Neoavanguardia che, come sostenuto dal compianto Alfredo Giuliani, già nell’anno della sua istituzionalizzazione palermitana in un cento senso si esaurì, sgretolando il suo consolidamento e decretando la sua fine.
Ciò che ancora oggi rende affascinante leggere Malerba, specie quello degli esordi, è quella particolare sensazione di spaesamento che ne consegue. Dalla disgregazione concettuale e tematica, al sottile gioco della menzogna, allo status di contraddittorietà tipico dei personaggi descritti, alla dimensione onirica-ironica in cui le vicende, anche quelle in apparenza più semplici e banali, vengono presentate. Siamo in pieno Modernismo, non c’è dubbio, resta da capire, però, di che tipo. Come dimostrato da Eco nell’articolo prima citato, collocare con costanza e precisione Malerba in una corrente letteraria, o per lo meno in una sola, è tutt’altro che semplice. Ancora oggi in ambito accademico sopravvive, merito in parte della critica inglese, l’etichetta di autore postmoderno par excellence, e pure ante litteram se proprio si vuole includere a questo filone anche la produzione degli anni Sessanta. D’altronde, la presenza di tecniche narrative come il double coding, il citazionismo e l’estrema frammentazione indirizzano verso questa strada.
A dire il vero sarebbe altresì possibile (e più logico vista la data di pubblicazione) in merito al Serpente parlare di Neoavanguardia se si considera la parola come espressione di un «disagio» culturale ed esistenziale e se si pone in risalto la complicata «esemplificazione» del tessuto sintattico-narrativo tutto costruito su una fitta trama di «negazioni» e «assenze» linguistiche più che concettuali. Il commerciante di francobolli protagonista del romanzo vive un disagio, un malessere esistenziale ed intellettuale che, l’alterità generata dalla menzogna, riesce in un certo qual modo ad attenuare. «Io non mi accorsi di niente», «io ho mentito», ripete spesso il protagonista come per esorcizzare il corso degli eventi, come per volerli e volersi giustificare. Ma collocare il Serpente nel territorio della Neoavanguardia sembra ancora non soddisfare del tutto. Proprio la costante dell’ironia, la consapevole e reiterata volontà di confondere il lettore, quella che lo stesso Malerba altrove chiarisce come «uso della contraddizione» e «percorso accidentale del disordine», non permette una facile collocazione. Lo stesso Eco, d’altronde, dopo avere ridimensionato i confini troppo marcati che ascrivono tout court l’opera di Malerba al Postmodernismo, non vuole prendere una precisa posizione.
Una ulteriore suggestione è lo stesso scrittore a fornircela nel suo saggio didascalico sui motivi e sui modi dello scrivere e della letteratura dal titolo Che vergogna scrivere pubblicato nel 1996. Nel paragrafo Lasciatemi sognare, poco prima di prendere le debite distanze dalle illusorie aspirazioni del Realismo (da lui definito una «truffa») di «dare un senso alla realtà», è lo stesso autore a parlarci di Surrealismo riportandone la definizione di Breton tratta dal Manifesto del 1924. Al «penso dunque sono» di uno scrittore realista, Malerba preferisce nettamente il «penso dunque sogno»:
«Il Surrealismo dava una grande importanza creativa al sogno. La definizione del Surrealismo dettata da Breton ce lo conferma: «Automatismo psichico con il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto, sia in ogni altra materia, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale». Ma questa definizione trascura un passaggio obbligato per ogni opera letteraria, vale a dire la lavorazione attenta e cosciente dei materiali.»
Si tratta quindi di un automatismo psichico in cui l’inconscio altera inconsapevolmente e liberamente i dati della realtà contaminati dai fantasmi del pensiero o del sogno. Alla luce di questo concetto e sulla base di tale indicazione autoriale non è poi così difficile inserire in questa dimensione il protagonista del Serpente con le sue continue allucinazioni. E non solo. Tutte le tematiche care al surrealismo vengono pienamente riprese nel romanzo. La follia e il sogno, innanzi tutto: il protagonista crea persone e vicende dai fantasmi del suo inconscio, simula un matrimonio mai esistito, associa un atto sessuale alla musica di un concerto, inventa la tecnica del canto mentale, l’esistenza di potenti sette segrete, l’amore per una donna mai conosciuta né tanto meno esistita, un atroce delitto mai effettivamente commesso. L’amore inoltre, come motore fondamentale della vita: amare una donna immaginaria, nutrire per essa una morbosa gelosia senza razionale fondamento sembra essere l’unica alternativa a una vita da commerciante monotona, grigia e sterile. La liberazione da qualsiasi convenzione sociale o dalla morale comune, altro tema caro al Surrealismo: l’amore è necessario sì ma non può essere eterno; la legge è un qualcosa di cui non si può avere certo paura – il romanzo si conclude con la deposizione dell’imputato volontariamente consegnatosi alla polizia; Dio inoltre, nelle parvenze di «architetto» o «mostro occulto», non può certo esistere. L’esistenza appare ingombra, la vita di per se stessa un irrimediabile disagio in cui sordidi suoni di campanelli, squilli di telefono e voci di trapassati perseguitano e stancano. La conclusione del romanzo più che mai immerge in una atmosfera allucinata e trasognata. Il protagonista, stanco dell’assedio delle voci che lo perseguitano, aspira al silenzio, al buio, all’immobilità. Si arriva, paradossalmente, alla volontà di negare l’irrealtà, o quella pseudo-realtà mai esistita eppure così reale! Il «non», tanto insistentemente reiterato, diventa l’unica alternativa alla menzogna. Non serve più a nulla mentire pur di asserire, si preferisce piuttosto negare:
«Sono stanco. Vorrei che questi campanelli smettessero di squillare e in ogni caso non sentirli se squillano. Vorrei non pensare a niente per non stancarmi perché sono già stanco. Ogni mossa ogni voce ogni rumore si ripercuote e risuona come in una immensa cassa armonica. […] Vorrei restare fermo, immobile, in posizione orizzontale, con gli occhi chiusi, senza tirare il fiato, senza sentire voci e campanelli, senza parlare. Al buio. Non avere nessun desiderio, nessuno che parla e nessuno che ascolta, così, al buio, con gli occhi chiusi.»
Non è possibile, è vero, asserire con certezza se le letture di Apollinaire, Breton, Eluard, Aragon, Soupault o di altri autori del Surrealismo francese e non, che certo accompagnarono la formazione intellettuale dello scrittore, abbiano condizionato, e in un certo senso ispirato, la composizione del Serpente. Di suggestioni comunque mi sembra più che lecito discuterne.