Il Sesto Senso, USA, 1999, Regia di M. Night Shyamalan
Recensione di Alberto Bordin
Delle cinque emozioni di Inside Out, una che varrebbe davvero la pena indagare in futuro è Paura. Gioia non è in sé sufficiente a descrivere quella forza che ci muove e chiamiamo Amore, né le altre tre possono reclamare una simile potenza e autonomia; ma Paura: la paura è un motore – o antimotore, che dir si voglia – di energia esorbitante. Quanto possiamo vivere dominati dalla paura, quante scelte pensate, organizzate, agite, in virtù di essa. È difficile concepire le giornate, una vita, dominate da rabbia o disgusto, forse dalla tristezza, ma sempre come un risultato, come un quoziente del vivere. La paura invece può porsi alla radice del nostro quotidiano. Ed è tuttavia difficile parlare con coscienza della paura, e pertanto è difficile farne un film.
Lasciamo da parte quella produzione strozzata di pellicole che si autofagocitano in un mercato di salti sulla poltrona, squartamenti sanguinolenti e mostri senza un perché e senza un come – ricordiamo che pure il Demonio ha un perché e un come. Anche nell’esiguo mercato restante, trovare soddisfazione da un film horror è cosa rara. Alcuni utilizzano l’horror come pretesto – andate a vedere l’ultimo film di Del Toro Crimson Peak: è una storia d’amore condita di fantasmi – mentre i restanti fanno dell’horror un gioco immorale, una disperata corsa verso la salvezza senza redenzione o catarsi.Dentro un panorama tanto desolante, film quali Il Sesto Senso sono una manna dal cielo.
Malcolm Crowe è uno psichiatra infantile, medico di successo, felicemente sposato, finché una notte un suo vecchio paziente irrompe in casa sua accusandolo di averlo abbandonato; gli lascia in regalo una pallottola nell’addome e si spara. Sono passati otto mesi e apparente tutto è tornato alla normalità, ma ora Malcolm sente pesare il senso di colpa, e l’ossessione che l’attanaglia in cerca di redenzione sta mandando in frantumi il suo matrimonio. A soccorrerlo, ecco la sua occasione: il piccolo Cole di 9 anni soffre degli stessi disturbi del paziente suicida. Il bambino si sente perseguitato da un male profondo, è dissociato dal mondo, additato dai compagni come uno stupido, e la madre single per quanto bene gli voglia non è tuttavia in grado di aiutarlo. Crowe, non senza preoccupazione, si accolla il caso. E sarà in un’acquisita intimità che il bambino gli confesserà il suo grande segreto: “io vedo la gente morta. Continuamente”.
16 anni fa, Il Sesto Senso fu un film di sorprendente qualità; nella scrittura, con uno dei più eclatanti e imprevedibili colpi di scena di sempre, e nella regia, prima grande opera a battezzare l’astro cadente che è stato M. Night Shyamalan. Il Sesto Senso racconta una storia di terrore, ma è sul primo punto che vorremmo focalizzarci: racconta una storia; ed è il secondo che ci sorprende per non porsi a contraddizione del primo: di terrore. Quella di Crowe e Cole è un’avventura terrificante ma non priva di speranza. È la chiamata a un cammino che con l’angoscia nel cuore i due protagonisti si apprestano a percorrere con una sola domanda, quella che dovrebbe implicitamente chiedersi ogni eroe: qual è il significato di tutto ciò?
Elogiamo la fotografia sobria, le inquadrature meticolose atte a raccontare, l’interpretazione convincente di Bruce Willis e quella magistrale del piccolo prodigio Haley Joel Osment, e poi le musiche, che incarnano la dolorosa nostalgia delle anime che vagano in pena sulla terra. Lodiamo gli sceneggiatori per regalarci una storia che ne contiene dentro un’altra: queste sono le vere sorprese, quelle sorprese che adoriamo e che restano immortali, ovvero le sorprese che non erano attese, le spiegazioni che se non fossero giunte non ci saremmo aspettati di ricevere; pensavamo di aver visto un film – un bel film – e invece era uno anche migliore – ricordate Fight Club? Psycho? L’Impero Colpisce Ancora? è di questi film che stiamo parlando. Ma appunto Il Sesto Senso è un bel film prima della sua rivelazione, perché è una storia di trasformazione e di crescita. Il Sesto Senso ci fa paura per insegnarci una cosa importante: non dobbiamo averne. Non vogliamo averne, combattiamo per non averne più. E pur nell’ansia e attanagliati dal terrore di un bambino di 9 anni abbandonato a sé stesso, solleviamo quella tenda rossa andando incontro a ciò che ci chiama, per scoprire perché ci sia concesso questo spaventoso dono.
È il cammino della vocazione, perché in fondo ogni avventura inizia con una chiamata. E nella pace della rivelazione, gli spiriti e gli uomini possono guardare a ciò che hanno di più caro e scoprire quel significato profondo. Porre termine alle proprie afflizioni e finalmente essere liberi: ovvero redenti.