Il settimo sigillo

Creato il 08 ottobre 2014 da Lafirmacangiante
(Det sjunde inseglet di Ingmar Bergman, 1957)
Essere o non essere questo è il problema. [...] E con il sonno dire che poniamo fine al dolore della carne [...] Morire, dormire forse sognare...
Per dieci anni siamo stati laggiù lasciando che le serpi ci mordessero, le mosche ci divorassero, le fiere ci dilaniassero, gli infedeli ci accoppassero, il vino ci avvelenasse, le donne ci infettassero, le piaghe ci dissanguassero e tutto perché? Hah... per la gloria del Signore...
Nelle due citazioni esposte qui sopra, la prima shakespearina, la seconda carpita direttamente dalle labbra dello scudiero Jons (Gunnar Bjornstrand), uno dei protagonisti del film, si trovano racchiusi i due temi portanti de Il settimo sigillo, una delle opere più conosciute del regista e sceneggiatore Ingmar Bergman (da non confondere con la Ingrid, please) e film considerato uno dei capolavori della cinematografia mondiale.
Contrapposizione tra la vita e la morte, essere (vivi) o non essere, e il ruolo che in questo dilemma atavico gioca la fede. Come approcciarsi al fatidico momento e soprattutto in che termini affrontare le riflessioni, inevitabili prima o poi, su quel che sta di là, dall'altra parte, ad attenderci? Queste le chiavi di lettura del film, il suo motore e la sua forza coadiuvate da un'efficace fotografia, da immagini ben conservate e da simboli affascinanti disseminati lungo questa semplice (per costruzione) vicenda.
Di ritorno dalle crociate il cavaliere svedese Antonius Block (Max von Sydow), accompagnato dal fido scudiero Jons, incappa nell'incarnazione della Morte (Bengt Ekerot) venuta a prenderlo. Con la proposta di un'ultima partita a scacchi con la Morte il cavaliere ottiene di procrastinare l'avvento dell'ultima ora: in cerca di qualcosa lui, sicura della vittoria lei, l'accordo viene siglato. La metafora della partita a scacchi tra la vita e la morte è nota ed evidente così come lo sono le contrapposizioni tra bianco e nero riflesse dai pezzi degli scacchi e dal bianco e nero della pellicola.
Lungo il corso della vicenda Antonius Block cercherà di carpire la verità, un segno del Signore Onnipotente che possa forse consolarlo e permettergli di affrontare la morte con serenità. Non gli sarà di certo d'aiuto il suo scudiero convinto ormai che di là non ci sia nulla ad attenderlo se non l'infinita pace di una non-esistenza. Intanto in una terra dove Dio sembra sempre più lontano infuria la piaga della peste, la gente muore tra sofferenze e paura, segni e risposte non ce ne sono. Probabilmente nei due personaggi c'è qualcosa del Bergman giovane, figlio di un pastore protestante, educato alla fede e alla religione, e qualcosa del Bergman più maturo che dalla religione stessa si allontana. Lungo il viaggio verso casa, inframezzato dalle fasi della partita a scacchi, i due incontreranno altri personaggi, alcuni di notevole importanza nell'economia della pellicola come gli attori comici Jof (Nils Poppe) e la moglie Mia (Bibi Andersson).

Il film assolve il compito di suscitare le domande che era nelle sue intenzioni suscitare senza dare risposte come non potrebbe essere altrimenti. I dubbi di Bergman sono quelli di tutti, tranne forse di chi è dotato di una fede incrollabile e inattaccabile. Risposte che in fin dei conti neanche la stessa Morte è in grado di dare.
Un film concettuale che, almeno per quelli che sono i miei parametri, difficilmente si può guardare per il piacere di farlo. Lo si guarda per conoscerlo, qualcuno lo guarderà per studiarlo. Ciò non toglie che chiunque (chiunque con un minimo di curiosità) possa apprezzarlo per quello che è, un pezzo molto importante della storia del cinema e un veicolo di riflessioni profonde.


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