Il Signore degli Anelli – Il lato dolceamaro della trasformazione

Da Loredana Gasparri
Ed ecco finito Il Signore degli Anelli. Nel mezzo sono passati altri libri, una vacanza intera, e tanti pensieri che attendono disordinati di essere messi su carta. È stata un’emozione arrivare alla battuta finale di Sam Gangee “Sono tornato”. Un groppo in gola che non pensavo si sarebbe verificato di nuovo. Cosa mi ha lasciato questa ennesima rilettura de Il Signore degli Anelli? Una consapevolezza maggiore di quanti  livelli la compongano. Da una parte ci sono i grandi personaggi, come Gandalf, Aragorn, la Dama Galadriel, Elrond, i Signori del Mark e i Sovrintendenti di Gondor. Assomigliano alle figure bidimensionali protagoniste delle grandi epopee e dei carmi eddici del passato letterario scandinavo e anglosassone, tanto caro a Tolkien. Tra di loro non avrebbe sfigurato Sigurdhr, l’alter ego norreno di Sigfrido, Beowulf e il suo orrido antagonista Grendel, con il loro coraggio ultraterreno, la volontà di combattere e di coprirsi di gloria affrontando sfide impossibili. Sono grandi figure, ammantate di potere anche quando vestono di stracci, hanno spade forgiate da elfi antichi, fabbri sconosciuti ma immensamente savi. Le loro parole sono sempre importanti, gravi, vedono lontano, sanno prendere decisioni gravi, e quando sbagliano, ammettono le loro responsabilità con serietà. Sono affascinanti, ma…sono figure. Spesso è il loro ruolo che parla e cammina, e la loro umanità viene in secondo piano. Il ritmo cambia decisamente quando abbassiamo lo sguardo sugli Hobbit. Sono loro la vera chiave della vicenda. Sono loro che si trasformano, crescono, cambiano e diventano forti, in grado di resistere agli orrori e di difendersi da soli. Al pari degli anelli, battuti dai fabbri per essere forgiati e infusi di poteri immensi, gli Hobbit sono quelli che passano le prove più dure per diventare esseri umani (oppure Hobbit, visto che ci siamo) a tutto tondo. I re rimangono re, anche se vestiti di stracci, mentre i piccoli Hobbit, da creature dedite alle passeggiate e alle grandi convivialità, crescono e si trasformano in persone capaci di prendere in mano le situazioni e trasformarle. Il senso di tristezza introdotto dalle parole di Gandalf, per cui tutto sarebbe cambiato e niente sarebbe rimasto uguale a prima, dopo la sconfitta di Sauron, si ritrova soprattutto nelle vicende dei piccoli.
Tanto trasformano, tanto perdono, e tanto acquistano. Frodo stesso, diventato Portatore dell’Anello, si ammala, perde popolarità e salute, ma acquista il diritto di fuggire in un’altra dimensione, quella dei Rifugi Oscuri, lontano paradiso terrestre riservato per lui e per Bilbo, custodi dell’Unico Anello. Gli altri, Merry, Pipino, Sam, hanno il compito di continuare con la loro vita e far crescere e trasformare quello che c’è intorno a loro. Merry e Pipino, in particolare, si trasformano anche fisicamente: diventano più alti e più forti. Non è solo grazie alla bevanda ristoratrice creata dagli Ent, ma sono gli orrori che li hanno ghermiti e stretti per tanti lunghi giorni, quando sono stati catturati dagli Orchetti e sballottati come stracci verso Isengard. Il fatuo Pipino cambia completamente atteggiamento. Agli inizi del romanzo è quasi irritante: il classico giovanotto irresponsabile, compagnone di feste, testa leggera, occupato a divertirsi e poco altro. Incurante di questioni come “eventuale pericolo”, tocca i fuochi artificiali di Gandalf, facendoli partire, semplicemente per divertimento. Prende parte all’avventura con Frodo principalmente perché non sopporta di essere lasciato indietro, all’oscuro, fuori da possibili occasioni per esibirsi. Durante la traversata delle Miniere di Moria, il giovane Hobbit, contravvenendo a tutte le esortazioni di stare in silenzio e muoversi piano per non attirare attenzioni sgradite, getta una pietra nel pozzo della stanza centrale per saggiarne la profondità, e facendo aumentare il ritmo dei tamburi nemici. Solo la minaccia molto seria di finire di sotto insieme al ciottolo, pronunciata da Gandalf, riesce a mettere un freno alla sua irresponsabilità, almeno per poco. Mentre fuggono da Isengard, Pipino decide di dare un’occhiata alla sfera maledetta del Palantir, e ha un incontro interessante con Sauron in persona e il suo occhio terrificante e spietato. Probabilmente, il faccia a faccia con il male senza freni è quello che lo traumatizza e lo fa crescere e usare le sue qualità per essere qualcosa di diverso dal buffone consueto. Quando viene rapito dagli Orchetti insieme a Merry, trova un modo ingegnoso per segnalare la sua presenza ai soccorritori che li stanno rincorrendo, Aragorn, Legolas e Gimli.  Accortosi prima di tutti gli altri della pazzia delirante di Denethor, che sistema il secondogenito Faramir su una pira funebre anzitempo, rifiutandosi di vedere che è ancora vivo, per quanto gravemente ferito, corre a cercare l’aiuto di Gandalf per impedire un vero crimine della follia. Pipino diventa così un uomo d’azione, un lottatore che rifiuta di cedere all’orrore. Merry è più riflessivo e posato del cugino, ma si trova ad affrontare una trasformazione simile.  Mentre Pipino si lega alle vicende di Gondor, Merry resta con re Theoden del Mark, e accompagna Eowyn nella sua impresa fondamentale, affrontare e uccidere il Re Spettro. Il borioso Nazgul, che non poteva essere ucciso da uomo mortale, viene atterrato da una donna, Eowyn, e da un Hobbit, Merry, le due figure meno probabili di giustizieri del male. Tuttavia, non escono indenni dallo scontro, perché lo spirito malvagio li fa cadere in una profonda prostrazione, da cui verranno guariti dalle mani taumaturgiche di re Aragorn. Frodo, quello che ha subito più a lungo l’influsso del male tramite l’anello, rischia di perdere se stesso e il senso della sua missione proprio davanti a Monte Fato, quando cede momentaneamente alle lusinghe del metallo maledetto che vuole sopravvivere. In quel momento, rischia di perdere anche il senso dell’amicizia di Sam, che lo ha salvato, sostenuto, protetto, curato fino all’inverosimile. E’ Gollum che ristabilisce l’equilibrio, agendo con la consueta avidità. Sam è l’amico fedele fino al midollo, nato gregario, almeno apparentemente. È il giardiniere di Frodo, ed è abituato a servirlo, ad essere secondo, a lasciargli il passo, a pendere dalle sue labbra e dalle sue decisioni. Quando l’orribile Shelob attacca Frodo separandolo da lui, Sam si trova di fronte a due scelte: trasformarsi o soccombere. Solo trasformandosi può aiutare il suo padrone e se stesso. E lo fa al punto che tra gli Orchetti di Cirith Ungol si sparge la notizia che un grande e splendente guerriero elfico ha battuto la malvagia Shelob e una quantità spropositata dei loro compagni d’arme. Sam è il primo a riderne...in mezzo a tutte le difficoltà, le privazioni, e le preoccupazioni dovute alla convivenza forzata con l’infido Gollum, questo Hobbit non dimentica mai una parola scherzosa di commento per togliere forza negativa agli eventi spiacevoli che lo assalgono da tutti i lati. Dopo la sconfitta del Male, in possesso di queste nuove identità cresciute dalle loro sorprendenti forze interiori, gli Hobbit ritornano nella loro adorata Contea, per scoprire che la corruzione e l’egoismo ha attecchito anche lì, creando odii e divisioni dove prima non esistevano. I primi a reagire e a riportare l’ordine sono Merry e Pipino, che ormai agiscono come comandanti di eserciti. La ricostruzione e l’abbellimento della Contea spettano all’infaticabile Sam, che usa i semi donati dalla Dama Galadriel per ridonare splendore e abbondanza alla sua amata terra. Molto sarà perduto, niente sarà come prima, ma molto sarà guadagnato: parole apparentemente tristi e autunnali, che parlano di morte e rinascita. Gandalf è serio quando le pronuncia, e consapevole: non ha senso disperarsi a lungo e provare nostalgia per un tempo bello e florido che ormai ha finito la sua ragione di esistere, ma è necessario piantare i nuovi semi e costruire qualcosa di diverso, che potrà diventare a sua volta altrettanto bello e florido.

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