Il silenzio di Dio nelle immagini di un figlio, di Antonio Demontis

Creato il 15 dicembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da Andrea Sartori su dicembre 15, 2011

Alexander Ahndoril, Il regista, Aìsara, Cagliari 2011.

Tredici capitoli, tredici passi di un figlio nel penoso cammino di emancipazione dalla segregazione affettiva perpetrata da un padre insoddisfatto, deluso, affranto. Un padre, ma anzitutto un pastore che invano ha cercato Dio nella luce, trovandolo solo nel buio e nella solitudine, nella lontananza dagli affetti più cari. Su queste basi, Ahndoril definisce il paradigma esistenziale di Ingmar Bergman, osannato genio creativo, autore de Il settimo sigillo, e figlio debole e ipersensibile, prostrato dall’apparente imperscrutabilità del risoluto padre. La preparazione del film Luci d’inverno, secondo capitolo della densissima “trilogia del silenzio di Dio”, costituisce il proscenio ideale per la rappresentazione del dramma del Regista; il film, infatti, risponde alla volontà di Bergman di raccontare sé stesso, di descrivere che cosa sarebbe successo, se avesse ceduto all’imposizione di farsi pastore. Un’accorata confessione veicolata dal linguaggio artistico insomma, e uno strenuo tentativo di dimostrare al padre che ci può essere salvezza anche al di fuori della “professione di fede”. Analizzando questo autobiografico processo creativo, Ahndoril, noto al grande pubblico con lo pseudonimo di Lars Kepler, si impegna a tradurre gli sconvolgimenti interiori di Bergman in una sontuosa struttura narrativa, marcatamente espressionista, tutta tesa alla mimesi delle dinamiche psicologiche del regista. Si assiste così ad un movimento continuo che dalla tangibile dimensione reale contingente va alla radice spirituale di Bergman: il lettore è cullato da questo moto oscillatorio, e attraverso gli “occhi chiusi” di tozziana memoria del protagonista, sprofonda tra le pieghe più profonde della “storia comune di un uomo straordinario”. Pur tra mille difficoltà, il progetto Luci d’inverno decolla, e il risultato, oltreché da un punto di vista estetico, è stupefacente: l’autobiografismo di Bergman riesce a scardinare la diffidenza e la reticenza del padre, che alla prima del film si scioglie in una sincera commozione. Eppure queste lacrime non sono il frutto dell’orgoglio paterno per il successo del figlio talentoso, bensì il risultato di un coinvolgimento, che sublima nell’immedesimazione e nell’identificazione: «è stato un po’ come essere di nuovo pastore aggiunto all’officina di Forsbacka». Nel momento cruciale della narrazione, Ahndoril innerva le due vicende umane in una preziosa mise en scène teologica, dimostrando che il dissidio primordiale trova la sua naturale ed implicita risoluzione nella coscienza della consustanzialità di Ingmar col padre. Rapporto di consustanzialità che interessa, più in generale, l’intero romanzo dello scrittore svedese, capace di trovare la sintesi perfetta tra due elementi, due codici, quello cinematografico e quello letterario, apparentemente lontani e diversi.


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