Il socialismo impossibile

Creato il 17 maggio 2013 da Conflittiestrategie

Questo brano è un estratto di un articolo di prossima pubblicazione sulla Rivista Nomos.

…Il socialismo, scientificamente e storicamente inteso, è un gradino intermedio verso la piena affermazione di un nuovo rapporto sociale (di tipo comunistico) emergente dal seno del capitalismo e dalle sue contraddizioni; ovvero, detto rapporto di ri-produzione sociale si sarebbe dovuto affermare nei fatti e negli eventi, e non per semplice volontà soggettiva, nelle viscere del capitalismo ormai maturo tramite la socializzazione delle forze produttive, cioè con la ricongiunzione progressiva delle potenze mentali e manuali della forza-lavoro salariata nel ciclo lavorativo proprio mentre le vecchie classi proprietarie, in via di restringimento per l’accelerato accentramento della ricchezza in poche mani (fase monopolistica intesa nella sua irreversibilità stadiale), al quale sarebbe corrisposto l’altrettanto inevitabile l’allargamento della base esecutiva (con tutto ciò che questo comportava in termini di concentrazione della spinta rivoluzionaria), si sarebbero distanziate dalla produzione reale per dedicarsi agli affari di borsa.

In queste condizioni di disparità numerica sarebbe stato facile ed indolore abbattere esse ed il loro Stato protettore.

Tale collettivizzazione spontanea, per effetto di una intrinseca dinamica capitalistica, portata fino alle sue estreme conseguenze, avrebbe reso l’involucro dei precedenti rapporti di produzione obsoleto ed inadeguato a contenere le forze produttive associate e finalmente consapevoli del loro ruolo centrale per il progresso umano.

Dall’evoluzione inevitabile di questi fattori sarebbe principiata l’espropriazione degli espropriatori (i capitalisti ormai rentierizzati), divenuti alieni alla produzione ed adusi unicamente ai giochi dell’alta finanza, la cui egemonia sulla collettività sarebbe discesa dal puro controllo dei corpi speciali dello Stato, posti a tutela della proprietà, ma non dall’amministrazione dei luoghi di lavoro in cui la ricchezza veniva effettivamente generata ed investita (la fabbrica).

Dunque, la proprietà si sarebbe divisa dalle potenze mentali (direzione) e manuali (esecuzione) del ciclo produttivo causando quella differenziazione duale tra il redditiere possessore delle condizioni di produzione attraverso la sua supremazia finanziaria e la forza lavoro complessiva (manuale e intellettuale, esecutiva e direttiva)  costituente l’operaio combinato o General Intellect preconizzato da Marx, il quale deteneva le abilità e i saperi, finalmente riuniti, nelle unità produttive.

Il socialismo del XXI secolo non è niente di tutto questo e nemmeno prende in considerazione tali elaborazioni marxiane (per quanto volentieri se ne richiami commettendo marchiani errori esegetici) mentre per fisionomia concettuale e perorazione idealistica assomiglia fin troppo alle dottrine prescientifiche dei filosofi utopisti del settecento e dell’ottocento. Si tratta, in sostanza, di un mito fondativo comunitario su basi psicologiche, moralistiche e, persino, religiose. Nulla di più distante da Marx e, purtroppo, anche dalla realtà. Nel prossimo paragrafo  lo vedremo  in dettaglio.

In passato abbiamo già assistito ai suddetti progetti d’ingegneria sociale tutti miseramente falliti. Et pour cause. Ma sono anche andati a rotoli, seppur più lentamente, gli esperimenti discendenti da autentici processi rivoluzionari (il socialismo reale), i quali, benché siano riusciti a determinare risultati storicamente rilevanti in termini di crescita della potenza nazionale, sono saltati proprio a causa del raddoppiamento ideologico con il quale avevano formalmente abolito il capitalismo senza riuscire ad attivare diversi e più congruenti rapporti sociali. La conseguenza fu che in questi contesti la proprietà privata dei mezzi produttivi divenne proprietà di Stato e di Partito e la socializzazione dei medesimi una collettivizzazione violenta e costrittiva. Poiché nel frattempo erano però stati repressi e soppressi gli elementi e gli istituti più dinamici del modo di produzione  capitalistico, come la concorrenza e l’iniziativa imprenditoriale,  ineluttabilmente si giunse alla stagnazione più nera e alla decisiva implosione di tutta l’impalcatura socialistica.

L’unico “esperimento” che ha resistito,  con successivi aggiustamenti di tiro, è stato quello cinese del socialismo di mercato, ossimoro fuorviante atto a celare rapporti capitalistici belli e buoni, pur se incanalati da gruppi spadroneggianti nel partito-stato, di cui quelli economici sono stati diretta emanazione, e che adesso vanno autonomizzandosi. Capitalismo dagli occhi a mandorla, a segnalarne la specificità, ma pur sempre capitalismo basato sui capisaldi dell’impresa e dello scambio nella sfera economica (in virtù dei quali hanno evitato la misera sorte dell’economia sovietica), mentre le differenze sostanziali coi nostri sistemi di libero mercato sono tutte nell’articolazione dirigista dei poteri e nella forma costituzionale, a partito unico, dove si accendono i conflitti tra i vertici apicali per il controllo degli organi direttivi di quella particolare formazione sociale…


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