Diceva, a chiunque incontrava, che voleva andare in America. S’era perso sulle strade del mondo. Voleva perdersi sulle strade d’America. Forse per l’ultima volta. Intanto che aspettava di raggiungerla viveva già in uno straordinario nuovo mondo tutto suo. Una specie di strano limbo affollato di personaggi stralunati e istintivi - pellegrini bene andanti in questo mondo, come lui. - “Uno di questi giorni me ne parto. Vado alla… Merica!” proclamava solenne verso tutti. Adulti e bambini. Giovani e vecchi. Gerardo brandiva la sua sgrammaticata informazione come un randello - tanto la considerava strepitosa. Non sapeva di minacciare un distacco doloroso solo per lui - e per nessun altro.
Non so se fosse spinto a un tale drammatico annuncio dalla voglia, sincera ma tardiva, di cambiare vita - d’allontanarsi per sempre dal paese nativo. O, invece, dal desiderio di realizzare un sogno tenuto nascosto per molto. Di certo il sogno più grande della sua vita.
Gerardo già si vedeva issato dritto sul ponte più alto di un transatlantico. In fondo a tre settimane di traversata e di stiva. Morto di sonno e di stanchezza, stravolto dalla fame, spossato dalla nausea e dal vomito - ma felice. Riesco ad immaginare la probabile scena. Si! E’ proprio lui! Lo vedo! E’ Gerardo, quel piccolo uomo avvinghiato forte al corrimano salato del parapetto; il viso arrossato dal freddo; schiaffeggiato dell’acqua ghiaccia dell'oceano. Si regge il cappello schiacciato sulla testa rotonda. Il respiro è affannoso, controvento. Il petto è gonfio dell’ansia di chi si appresta a calpestare il sospirato molo di Ellis Island.
In spalla un saccappà pieno del meno di niente che aveva. Ed ha la stessa faccia da grullo di sempre - solo appare un po’ meno avvilita.