Io credo molto nelle coincidenze, o meglio, credo che non esista avvenimento riconducibile a un altro, se non per un motivo ben preciso. Soprattutto ci credo quando si tratta di film, e di come, in un modo o nell'altro (coincidenze?), mi ritrovi coinvolta in visioni completamente diverse, eppure così legate l'una all'altra.Che poi a ben vedere non sono così diverse, c'è sempre di mezzo un piccolo punto che diventa comune denominatore.
Nell'arco di un mese ho visto tre film "tosti", tutti riguardanti la disperazione dell'essere umano. Alabama Monroe, Miele e Il Sospetto. Visto oggi. Questa mattina. Poco fa.
So che non si dovrebbe fare, e che ogni film in teoria fa il suo gioco se preso singolarmente, senza stare a comparare per forza o a cercare paragoni ostinati. Quel condizionale sta a significare che poi la realtà è diversa. Lo spettatore, non necessariamente critico per professione, tende a confrontare i film che vede e prova se può, a ricollegarli, a metterne in risalto le similitudini, gli abissi che li separano così come le reazioni scaturite da suddette visioni. Tutte dissimili, quasi sempre. Identiche addirittura, capita di rado ma quando accade è straordinario.
Mi capita a volte di reagire in maniera impulsiva, senza contare fino a dieci. Avete presente?Immagino di sì.
"Continuo a non capire come ci si possa far conquistare da un tatuaggio e da un banjo. Solo perché questi devono a tutti i costi incarnare la vita, l'amore e la morte. Davvero non lo capisco. Sarà che tendo a sentire più vera la disperazione pacata che grida silenziosa tra le rughe del viso, negli occhi, nelle mani e nelle gambe che tremano e non sanno più se essere capaci o meno, di sostenere un corpo pesante e svuotato dal dolore. Ultimamente di film importanti ne sto vedendo, di film che mi prendono e mi travolgono con storie tanto vere quanto assurde. Perché così è la vita, così va il mondo e a volte basta un piccolo sospetto, una voce, un pensiero, un'immagine vista al momento sbagliato ed è la fine. Credo nel cinema e credo in quei registi che, senza troppe forzature, sanno far passare la disperazione senza farla necessariamente vedere. Attraverso sguardi rabbiosi o di un condannato a morte, come gli occhi di Lucas che non sa da dove cominciare, per affrontare la follia scaraventatagli contro. Ecco, Vinterberg è la prova vivente di come i miei dubbi in merito al clamore e alle lacrime legate ad Alabama Monroe, siano subdole, evitabili o, peggio ancora, troppo facili. Il dolore ti annienta, ti stordisce come un pugno in faccia. Lo so, in teoria non c'entrano nulla, l'uno con l'altro, ma mi interessa il discorso legato a come un regista può, o meno, dare corpo al dolore. Senza risultare ruffiano e scorretto. Il sospetto è un grande film, un dramma che riguarda gli uomini e che ti porta a credere e a dubitare di chi hai accanto, senza volerne parlare perché la paura è più grande di ogni dubbio. Le risposte che arrivano le abbiamo partorite insieme al nostro terrore, mentre il mondo ci stava crollando addosso. Ed è così".
Questo è quanto ho scritto di getto, nell'immediato post visione del film Il Sospetto.Ora, so che è sempre antipatico andare a distruggere l'entusiasmo generale che ruota attorno a un film, in questo caso si tratta di Alabama Monroe. Ne sto leggendo di dichiarazioni d'amore e di canzonette tragiche dal sapore Country...e va bene, per carità. Ma parliamo di qualcosa che a me sfugge, non arriva. E metto sempre in preventivo che potrebbe essere un mio problema, un limite o difetto di fabbrica. Chi lo sa.
Insomma ho scritto/sto scrivendo l'ennesima (non)recensione. Mi perdonerete mai per questo?
Sarà che amo quei film che si intrufolano nell'anima dello spettatore, nella carne, e non ti chiedono né lacrime né giudizi. Non per forza.Il Sospetto è un dramma sulla follia dell'uomo e sulla spietata forza divoratrice che hanno i nostri dubbi, i nostri sospetti. Una vita intera può essere condannata a morte da una storia sbagliata, inventata o no, a te non è dato saperlo. L'uomo è condannato al dubbio eterno, e che tu sia la vittima o il carnefice, poco cambia. Anche perché qui è in ballo una storia di quelle da prendere con i guanti di velluto. Delicata ed estremamente fragile. La fantasia dei bambini è tanto imprevedibile come la loro verità, limpida o indecifrabile a seconda dei loro piccoli ma significativi dettagli assorbiti di continuo. Una foto vista al momento sbagliato, una frase ben precisa, memorizzata così bene da poterla recitare a puntino, come se fosse tua davvero e non fosse inventata, ma "vera".
Il film ha il grande merito di non mettere lo spettatore in condizione di schierarsi. Viviamo il dramma prima con gli occhi di Lucas, poi con quelli della piccola Klara, poi con quelli dei suoi genitori e del papà Theo, migliore amico di Lucas. E poi proviamo addirittura a metterci nei panni di quelli che reagiscono con i cazzotti e con la paura, e con la discriminazione che non ammette tolleranza. "Tu sei uno psicopatico, un malato e non puoi fare la spesa nel mio supermercato". Una donna che ti è accanto e non sa più nemmeno se dire "sì ti credo, so chi sei", oppure "no". Una lenta e crescente tragedia che da intima diventa di tutti, addirittura dell'aria e delle strade. Dei boschi che raccontano ballate di caccia e di cervi stesi al suolo, privi di vita. Una fotografia fredda. La storia di un cane che abbaia al nome di una donna sbagliata, fedele, sempre con te e proprio per questo morto ammazzato dalla paura e dalla follia degli uomini. E quando pensi che il sospetto e tutta la sua terribile odissea ti abbiano lasciato per sempre, eccolo sbucare all'improvviso. Per spararti un colpo alle spalle, e stenderti di nuovo.