di Francesco Gori
Quando “Un indizio non fa una prova”: il film Il sospetto del regista danese Thomas Vinterberg esemplifica al meglio questo detto popolare, mostrandoci quanto la reputazione sociale di una persona sia provvisoria e in grado di stravolgersi in bene o male nell’arco di poco tempo, in base a qualcuno o qualcosa.
Il sospetto – cinema.it.msn.com
Questo è quel che accade a Lucas (Mads Mikkelsen), maestro d’asilo che vive in una comunità ristretta dove tutti conoscono tutti. Sua unica compagna è la cagnetta Fanny, dopo un passato che scotta ancora: separato dalla moglie, cerca adesso l’affidamento del figlio adolescente. Il personaggio interpretato dal tenebroso quanto bravo Mikkelsen colpisce subito: il corpo scultoreo e lo sguardo impenetrabile si scontrano con un carattere dolce e sensibile, che piace a donne e bambini. In particolare alla piccola e fragile Klara che, trascurata da genitori litigiosi, vede nel professore un “piccolo amore”. Saranno un’ingenua interazione tra i due, nata dalla voglia di di attenzioni e affettività della bambina, e le parole dettate dalla sua fantasia disturbata, a generare un sospetto sull’uomo. Sulla sola base del concetto che “i bambini dicono sempre la verità”, Lucas sarà presto indiziato come pedofilo e malato, perdendo il sostegno di tutti gli amici, a cominciare dal migliore – quel Theo padre proprio di Klara -, della sua nuova donna, di tutti gli abitanti del paese, che si coalizzano contro il “male”.
È la contrapposizione tra bene e male e la possibilità per i reciproci rappresentanti di schierarsi che costituisce lo scheletro della storia. Dare addosso all’alfiere del diavolo, il pedofilo, permette un ritorno positivo ai “buoni”, che apparentemente sono la preside e il cordone genitoriale. La realtà è ben altra: la cerchia intorno a Lucas dimostra solo tanta ipocrisia e si concede a giudizi improvvisi senza lo straccio di una prova. Ecco cosa siamo per gli altri veramente: quello che pensano di noi, ciò che sta nella mente è quel che conta, al di là di messe natalizie e balli intorno all’albero che ben esemplificano la “messa in scena” della comunità. Non solo: sono i genitori ad inculcare ai figli l’idea del “mostro”, i proprietari del supermarket a negargli la spesa, gli amici a far fuori la sua compagna fedele, dimostrandosi essi stessi i veri mostri. Il maestro è esempio di straordinaria dignità. Nonostante i tentativi che la attentano, lui prosegue e testa alta, mantenendo un equilibrio che vacilla solo a tratti: chi non avrebbe ceduto alla rabbia vendicativa? Lucas non è il carnefice, ma la vittima della società e del marchio di fabbrica che ti appiccica con violenza sopraffina, nascosta sotto veli di falsità.
Altra questione che emerge è la comunicazione errata, e quanto da essa possa cambiare il destino di qualcuno: la direttrice Grethe travisa (o vuol travisare) le parole della bimba, il superiore la “spinge” a dire ciò che non direbbe. Un po’ come fanno spesso molti mass-media, riportando frasi mai dette o estrapolandone parti per indirizzare l’attenzione proprio lì.
L’atmosfera autunno-inverno della Danimarca, le foglie morte dal marrone cangiante e la neve che cade impietosa, e quella di un paesino di cacciatori – boschi, cervi e fucili a braccia -, ben si prestano al racconto di un tema scottante, qui in secondo piano rispetto a quello dello stigma: anche in caso di innocenza rimane il sospetto, e l’identità sociale timbra la pelle. Un tatuaggio che mai più se ne andrà, come ben ci mostra il finale apparentemente enigmatico di un film assolutamente da vedere.