La scarsa dimestichezza all’analisi politica, specie nella attuale fase iniziale e pure tardiva rispetto alla gravità del contesto, rende il dibattito preda di facili suggestioni verso punti di vista e soluzioni tanto semplicistiche e salvifiche, quanto suscettibili di essere quindi strumentalizzate per finalità esattamente contrarie ai propositi dichiarati.
Il ripristino della sovranità monetaria, la democrazia partecipata, la fiducia nei movimenti, l’uscita dall’euro piuttosto che l’Unione Europea Federale più che un programma politico sono altrettanti totem che sembrano esimere da una qualsiasi tattica e allontanare da una accurata analisi politiche gli illuminati del momento.
IL PUNTO SALIENTE DELL’INTERVISTA
Alcuni passi della recente importante intervista concessa da Nino Galloni a Claudio Messora, il 29 aprile scorso, ( http://www.byoblu.com/post/2013/04/29/nino-galloni-come-ci-hanno-deindustrializzato.aspx – more-14773 ) rappresentano un passo in avanti nel dibattito, ma solo su alcuni aspetti; il più significativo, dal mio punto di vista, quando sottolinea che “la politica monetaria sbagliata può impedire lo sviluppo, ma la politica monetaria giusta non produce lo sviluppo. Cioè la moneta è una condizione necessaria, ma non sufficiente dello sviluppo” e quindi “In realtà bisogna fare dei progetti di infrastrutture, di ricerca, di ripresa industriale, di salvaguardia della salute e degli interessi dei cittadini e soprattutto dell’ambiente, e sulla base di queste grandi strategie approntare i mezzi monetari che certamente non sarebbero scarsi”;“Si deve rimettere in piedi l’economia, nel senso che deve avere tutta la sua importanza l’economia reale. L’economia reale deve avere una finanza che la aiuta.” In questo è compreso ovviamente l’intervento diretto alla creazione di poli strategici di eccellenza. Una salutare stigmatizzazione dei limiti, ad esempio, non solo della teoria classica liberista ma anche di quella monetaria della MMT.
Pur nella ricchezza di informazioni, di spunti e di accenni offerti, il punto saliente dell’intervista si riduce poco più che a questo. Tutto il restante materiale di riflessione offerto rimane a mio parere imprigionato, soffocato e alla fine distorto in una visione ancora una volta prevalentemente economicista; quando affiorano, il contenzioso e le strategie politiche si riducono a un gioco e ad un conflitto nuclearizzato tra stati e paesi, tra l’altro giustapposti alle dinamiche economiche; un approccio tipico dello studioso degli agenti nel mercato. Un importante passo avanti rispetto all’ecumenismo cosmopolita imperante sino a pochi mesi fa; una grave battuta di arresto, però, rispetto alla capacità di analisi della dialettica e delle connessioni tra centri strategici all’interno degli stati con il risultato di trasfigurare completamente le stesse gerarchie in divenire tra i vari stati e i vari paesi nel corso degli ultimi decenni.
IL TRIONFALISMO SURRETTIZIO
Un limite che viene paradossalmente esorcizzato con una visione trionfalistica del tanto decantato miracolo economico italiano. Gli incrementi costanti di PIL conseguiti nel dopoguerra, come pure l’industrializzazione diffusa nel Centro-Nord sembrano dare ragione a tanto ottimismo. Galloni arriva a sottolineare il peso della grande industria “in cui hanno un ruolo le industrie energetiche, quindi Mattei, ma si comincia a sviluppare in modo sorprendente anche il nucleare”. Di sorprendente, in realtà, in quel frangente ci fu meno di quanto possa apparire guardando i soli dati macroeconomici. Fu la scelta americana, alternativa ai piani originari di annichilimento (piano Morgentaler), di assecondare lo sviluppo soprattutto tedesco e in parte italiano come baluardo estremo opposto al blocco sovietico, ma anche come argine verso le ambizioni da comprimari di Francia e Gran Bretagna. Fu però una sostegno particolarmente selettivo molto generoso nei settori industriali già allora maturi; ma che comportò l’esplicito diniego americano di accesso alle tecnologie nei settori dell’aereonautica, dell’elettronica, della prospezione petrolifera. Lo stesso sviluppo del’industria nucleare italiana trovò un adeguato sostegno americano solo sino a quando quel paese poteva coltivare il sogno di un controllo integrale del ciclo produttivo a fini civili e soprattutto militari; non appena si ebbe la certezza che la Francia di De Gaulle si sarebbe affrancata da quella supervisione, iniziarono subito i tentativi di dissuasione e di dismissione di un settore ormai d’avanguardia, ma sempre su licenza; obbiettivo che, per quanto riguarda l’Italia, fu pienamente raggiunto in pochi lustri. Cominciarono, allora come oggi con altre figure, le “solite” disavventure giudiziarie di Felice Ippolito, il paladino della ricerca nucleare italiana sino a determinare il progressivo totale smantellamento culminato con il suicidio “popolare” della sanzione referendaria negli anni ’80.
Galloni attribuisce la responsabilità del declino dell’industria nucleare all’opzione “petrolifera” adottata infine dai Governi nella politica energetica; questo non spiega però l’epilogo tragico della gestione dell’ENI di Mattei, tutta impegnata appunto ad espandere con notevoli margini di autonomia politica, quell’attività di estrazione. In realtà, sia lo sviluppo e declino dell’industria nucleare che la tragica interruzione della gestione Mattei all’ENI erano parte integrante del conflitto bipolare, delle diverse opzioni di conduzione delle mire egemoniche della potenza americana all’interno del proprio blocco e del diverso modo di intendere i processi di decolonizzazione dei paesi assoggettati ai quattro superstiti stati coloniali europei. Non a caso Mattei trovò la morte repentina proprio sulla soglia del successo clamoroso; proprio quando gli parve di aver trovato finalmente le giuste sponde e i giusti compromessi in una parte dell’establishment americano.
Se a tutto ciò si aggiungono le puntuali e ricorrenti battute di arresto di cui soffrivano le poche industrie strategiche di punta (Olivetti, Montedison,ect) proprio nel momento di compiere il salto organizzativo e dimensionale, si comprende che negli anni ’60 non ci furono semplici iniziali “segnali gravissimi di attacco al sistema italiano”, ma interventi ricorrenti sia pure in contesti meno drammatici e caotici dell’attuale con le poche trasgressioni pagate a caro prezzo o rimaste incompiute. Gli stessi termini utilizzati di “attacco al sistema italiano” e “interventi” sono in parte fuorvianti perché non evidenziano le dinamiche e le modalità con le quali maturarono quelle scelte. Le pressioni dirette esterne, diciamo così “istituzionali” furono senz’altro importanti; contarono molto di più i conflitti e i compromessi tra forze e settori interni, pronti a ricercare all’estero le sponde e i sostegni necessari e per questo veicolo degli interessi geopolitici dominanti.
L’affermazione che la “componente socialcomunista esce dal governo, ma manterrà una grande influenza nel campo creditizio” appare poco realistica, mentre ben altro peso ebbe il salvataggio del settore cooperativo; le battaglie interne alla Confindustria furono epiche con l’iniziale predominio dei settori più retrivi legati alle produzioni ottocentesche a loro volta legati alle compagnie idroelettriche, incapaci di garantire il passaggio al termoelettrico, entrambi restii al processo di integrazione europea e la successiva vittoria finale, negli anni ’50, dei settori dell’industria meccanica di consumo temporaneamente alleati all’ENI di Mattei e ai settori di base delle partecipazioni statali (siderurgia, cantieristica, elettrotermica) alternativi all’insufficiente e asfittica industria di base privata.
Sono solo alcuni esempi dei conflitti presenti all’interno del paese e che coinvolsero i partiti e in primo luogo la DC al proprio interno.
Galloni compie un balzo repentino di tre lustri per fissare nel ’78 l’apice della marcia trionfale del paese, giunto a superare l’Inghilterra, ad equiparare la Francia e impensierire la Germania, ma anche il punto di svolta in cui cominciarono a manifestarsi apertamente le forze “euroestremiste” favorevoli alla cessione repentina di sovranità monetaria, alla stretta monetaria, all’interruzione del finanziamento del debito con l’emissione di valuta nazionale, alla separazione della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro; forze impersonate da personaggi come Ciampi, Andreatta, De Mita, Monti e da tutti gli epigoni attualmente ai vertici dei gangli istituzionali.
Galloni ha perfettamente ragione nello stigmatizzare le conseguenze nefaste del progressivo prevalere di quegli indirizzi: esposizione all’estero del debito pubblico, impennata dei tassi di interessi, crollo degli investimenti pubblici sia nelle infrastrutture che nelle attività produttive gestite dalle Partecipazioni Statali, trasferimento delle risorse finanziarie aziendali dagli investimenti produttivi a quelli speculativi e monetari, realizzo rapido dei profitti senza programmazione di media e lunga durata, precarizzazione dell’economia e del mercato del lavoro; come pure nel negare una diretta e automatica correlazione tra politiche monetarie e inflazione.
Non riesce, però, a spiegare le ragioni del successo non solo di quell’attacco, ma, in termini più corretti, del prevalere progressivo e inesorabile di quelle forze nel paese e della loro progressiva saldatura con la sinistra sino alla fagocitazione avvenuta negli anni ’90.
UNA REALTA’ MOLTO PIU’ CONTRADDITTORIA
Il motivo di tale assenza sta proprio nell’infatuazione subita grazie alla valutazione macroeconomica eccessivamente ottimistica di quel miracolo economico e in particolare del ruolo delle Partecipazioni Statali.
Il settore industriale e dei servizi privato, compresa la piccola industria, oltre a rari settori di punta presentava una pletora di realtà produttive scarsamente organizzate e complementari rispetto ai centri economici in grado di resistere e crescere solo in fasi economiche espansive e solo se coadiuvate da continue svalutazioni; il settore dell’industria pubblica, pur con alcune attività strategiche importanti, mantenne sin dal dopoguerra e accentuò notevolmente già dalla fine degli anni ’60 il carattere parassitario, assistenziale e, nel migliore dei casi, del tutto complementare ai settori strategici operanti in tutt’altri lidi nel mondo. Basterebbe ricordare il dissennato tentativo di costruzione del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro e addirittura di un sesto centro quando già era nell’aria il ridimensionamento dei centri già in attività; come pure l’espansione abnorme della petrolchimica di base a scapito della chimica fine; per non parlare della deriva incredibile dell’EFIM, presieduta da Sette, uomo di fiducia di Aldo Moro, la quale pure aveva nel proprio portafogli originario aziende come la Breda e l’Agusta.
Le Partecipazioni Statali divennero, quindi, sempre più il luogo di compensazione del conflitto sociale, di mediazione dei conflitti tra centri di potere, di armistizio o tregua armata tra le forze politiche in modo da garantire un qualche sviluppo e una industrializzazione estensiva nel paese che però non intaccasse i livelli sostanziali di subordinazione del paese; parallelamente, l’incremento massiccio della spesa pubblica e ancor più del debito, legato sia alla spesa corrente che al pagamento di interessi sempre più alti, fu lo strumento che permise di assorbire lo scontro, il varo delle tre grandi riforme sociali (sanità, estensione del diritto scolastico e pensioni) senza incrementare proporzionalmente la tassazione in tutti i settori della società con il risultato di consentire lo sviluppo diffuso della piccola industria, di mantenere in forme diverse e meno localizzate il dualismo esasperato che affliggeva il paese sino agli anni ’50 e di gonfiare settori improduttivi, quando non parassitari ed assistenziali. Lo stesso apparato amministrativo statale conobbe una duplicazione e una sovrapposizione di competenze che ha portato ad una moltiplicazione paralizzante di centri di potere e gestione. Tra gli scotti pagati da quelle scelte, ci fu l’inflazione; un flagello che i proseliti del sovranismo monetario fine a se stesso tendono volentieri oggi a dimenticare.
Processi, questi ultimi, gestiti in prima persona dalla DC, compresi i cosiddetti “sovranisti” d’antan in palmo di mano di Galloni, ma che trovarono la progressiva compartecipazione della opposizione pur tra mille conflitti. Fu il modo, magari non del tutto pianificato, di impedire che quei conflitti assumessero una piega sovranista e realmente radicale; di corroborare economicamente e socialmente la maturazione delle scelte europeiste ed atlantiste del PCI berlingueriano con l’emarginazione apparentemente paradossale della componente amendoliana, quella più “borghese” e manageriale, e l’avvicinamento della componente ingraiana al suo interno.
DALL’ECONOMIA AL COMPLOTTO
In questa ottica appare non solo riduttiva, ma alquanto fragile e contraddittoria l’interpretazione che Galloni dà del rapimento Moro.
Invito a rileggere attentamente quei passi dell’intervista. Moro passava, secondo Galloni, come fautore del compromesso storico e questo avrebbe compromesso i piani di azione militare della NATO; ma è Galloni stesso a dire che questa simpatia è “cosa che poi potrebbe essere sfatata”.
Gli americani ed i russi, nel firmare, per interposta persona, la condanna di Moro sarebbero stati quindi vittima di un equivoco? Molto più verosimile che l’avversione conclamata di Moro al compromesso storico fosse di ostacolo alla prospettiva favorevole agli americani, decisamente meno ai monopolisti filo atlantici dello stivale, di creare una corposa alternativa di sinistra altrettanto atlantista alla balena democristiana. I contatti di Segre prima e, soprattutto, i successivi viaggi di Napolitano in quello stesso periodo dopo, devono avere allarmato parecchio circa la possibile nascita di un concorrente scomodo ed agguerrito. Gli avvertimenti di Kissinger a Moro devono essere stati di ben altra natura e i referenti americani di quest’ultimo dovevano essere invece quei centri strategici favorevoli al permanere ad oltranza del bipolarismo. Altro che schiacciante superiorità militare sovietica; il blocco sovietico manifestava già allora i primi preoccupanti scricchiolii per cause prevalentemente endogene. Il corollario del crollo auspicato sarebbe stato la riduzione di quei margini di autonomia che, soprattutto Mattei, ma anche personaggi come Fanfani, Craxi, Moro e pochi altri riuscivano a garantire periodicamente al paese e sui quali avevano costruito le carriere politiche.
IL SODALIZIO
Lo stesso Galloni, tra l’altro, dovrebbe riflettere sulla facilità e rapidità con cui lui stesso fu rimosso o emarginato dall’incarico prima di funzionario e poi di capo della struttura tecnica del Ministero del Bilancio all’inizio e alla fine degli anni ’80. Come pure sul fatto che conoscesse bene i suoi principali detrattori; non solo il cancelliere tedesco Kohl, ma anche Mario Monti, Guido Carli, la Banca d’Italia, la Fondazione Agnelli. Tutti personaggi e istituzioni, questi ultimi, più legati all’establishment americano che a quello tedesco
Nel prosieguo dell’intervista l’economista riesce a evidenziare con grande chiarezza il sodalizio che si andava costruendo tra i liberisti, nonché europeisti estremi del calibro di Andreatta, Ciampi, moralizzatori dichiarati della cosa pubblica e gli affaristi pronti ad approfittare delle vere e proprie elargizioni e dismissioni del patrimonio industriale e di servizi sotto il capestro dei vincoli finanziari e monetari, ma soprattutto politici. Il tipico esempio di un ceto politico incapace di coltivare le proprie virtù moralizzatrici e risanatrici se non appoggiandosi alla benevolenza straniera.
IL BERSAGLIO E I BERSAGLI
Nello stesso momento, però, manca definitivamente il bersaglio principale, con uno spostamento progressivo dell’attenzione verso i protagonisti di complemento.
Vediamo i passi salienti della parte finale dell’intervista.
L’oggetto del contendere, secondo Galloni, sono le politiche di sviluppo; “Io avevo identificato una spaccatura di impostazione, anche al momento in cui Monti era diventato Presidente del Consiglio dei Ministri, tra le posizioni americane e le posizioni europee. In Europa si diceva “lacrime e sangue. Prima il risanamento dei conti pubblici e poi lo sviluppo” Sono obiettivi anche di asservimento dei popoli, chiaramente. Mentre la posizione americana era una posizione di sviluppo, cercando di non peggiorare i conti pubblici, che già è una versione possibilista. Ma non è la concezione né di Monti né della Merkel né del polo europeo” Anche sugli artefici principali della politica liberista e restrittiva il cerchio ormai si stringe; “chiaramente Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli Illuminati di Baviera, sono tutte cose vere. Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decidono delle cose. Ma non è che le decidono perché veramente le possono decidere, è perché non trovano resistenza da parte degli Stati. L’obiettivo è quello di togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale in questo senso”. La debolezza e il declino degli Stati Unisti si spiegano sorprendentemente così, in ultima istanza; “Diciamo che dopo Kennedy gli Stati Uniti sono sempre più risultati preda dei britannici. È lì che c’è un nodo fondamentale da sciogliere. : I tedeschi sono posizionati nella storia e nella geografia in modo da doversi in qualche modo espandere. Se devono assumere una posizione di leader, devono anche accettare di rivedere le proprie politiche estere. Quindi un paese che voglia essere leader, come sono stati gli Stati Uniti d’America, importano più di quello che esportano. Se i tedeschi non accettano di importare più di quello che esportano, non possono neanche pretendere di essere leader” non ostante fossero chiare le debolezze e l’incomprensibilità di una politica americana, soprattutto le guerre, in alcuni momenti pesantemente influenzata dai club sovranazionali; “Perché le politiche economiche volute per esempio da Bush, tipo la riduzione delle tasse, erano chiaramente politiche che non avrebbero risolto il problema della crescita. Poi tutte queste guerre americane, speculazioni, vanificavano la potenza di un dollaro che se fosse stato destinato a investimenti produttivi, alla ricerca, alle infrastrutture, eccetera, probabilmente avrebbe creato una situazione accettabile”.
L’intervista si conclude così, senza un traguardo e obbiettivi definiti; la strada, però, sembra tracciata. Lo sviluppo può riprendere con il recupero della sovranità monetaria ed economica degli stati o delle unioni di stati, ponendo precise barriere ai club sovranazionali; l’anello debole, in questo momento sono la Germania e l’Unione Europea, quest’ultima però sulla incerta via del ravvedimento tracciata dalla BCE di Mario Draghi, di fede certamente americana; gli USA di Obama, ormai non più leader del mondo, sono comunque l’esempio da seguire; la politica keynesiana deve concentrarsi sulla ricerca, sulle infrastrutture, sull’ambiente, compreso il recupero produttivo dei rifiuti, quest’ultimo sottolineato curiosamente con enfasi ben tre volte nell’intervista.
I LIMITI DELL’ECONOMISTA
Da economista Galloni non può che approfondire l’aspetto delle politiche economiche; concedendo loro, però, l’assoluta ed esclusiva predominanza, sbaglia nell’individuare le dinamiche profonde che muovono lo scenario mondiale, l’avversario fondamentale (i club mondialisti, in particolare finanziari), gli agenti, complici e comprimari di esso (la Germania, in particolare), il bersaglio delle politiche predatorie, piuttosto che di dominio (i popoli) e le priorità delle stesse politiche di investimento (l’ambiente e il riciclo e riutilizzo dei rifiuti). Tutti ingredienti che prefigurano, tra l’altro, la ricerca di una sorta di governo mondiale.
Un approccio che impedisce di vedere la correlazione, nella scacchiera mondiale, tra l’indebolimento e addirittura l’evaporazione di alcuni stati e il deciso rafforzamento o consolidamento di altri, nonché la ridefinizione per un’intera fase provvisoria, appena avviata, di nuove gerarchie tra gli stati e di nuove aree di influenza generali e regionali tra loro interconnesse; che sopravvaluta il ruolo di un ambito, il settore finanziario, il quale, pur con una logica propria, è in realtà campo e strumento di azione di centri di potere in conflitto e alleanza tra loro attraverso soprattutto il controllo e la presenza nelle leve principali degli stati. Nella fattispecie, questo sito ha sottolineato più volte il ruolo assunto dagli strumenti finanziari nel perpetuare la superiorità tecnologica, industriale e militare degli Stati Uniti e per mantenere un minimo di coesione sociale necessaria a garantire la stabilità della formazione sociale, ma anche che questi strumenti sono stati corposamente coadiuvati da altre strategie politiche e militari nello scacchiere mondiale; in questo articolo, proprio una breve analisi della condizione della Germania a partire dalla fine degli anni ’80, argomento che svilupperò meglio in scritti successivi, potrà evidenziare i limiti e le distorsioni provocate da una impostazione prevalentemente economicista.
BREVE RICOSTRUZIONE DI UN DECENNIO CRUCIALE
Con la decomposizione del blocco sovietico la Germania era il paese europeo più pronto e attrezzato a beneficiare del nuovo scenario soprattutto nell’obbiettivo di ricomporre la propria divisione e frammentazione scaturite dall’esito delle due guerre mondiali.
Come l’Italia, ma con modalità differenti, divenne il campo principale di confronto di strategie tese ad occupare l’ex spazio sovietico e a ridefinire i rapporti di dipendenza con il centro egemonico.
L’Italia, alla fine degli anni ’80, aveva un ceto politico ancora radicato ma decadente da una parte e smanioso, nel versante opposto, di “riconoscimento internazionale”; possedeva una struttura economica industriale la cui componente industriale strategica, debole in valori assoluti ma importante in termini relativi, era concentrata nelle partecipazioni statali. Con una struttura statale e centri di potere frammentati e con la perdita improvvisa di collocazione di paese di frontiera, divenne il teatro di un processo di destabilizzazione complesso e sofisticato ampiamente riuscito.
La Germania, nello stesso periodo, riacquisisce una collocazione geopolitica centrale in Europa con un ceto politico molto più solido e radicato e una struttura industriale molto più forte e organizzata in centri più diversificati e di dimensioni ragguardevoli in un contesto in cui ha potuto sempre godere di un sostegno americano “benevolo”. L’unificazione tedesca è stata l’occasione di confronto e di scontro all’interno del paese tra strategie che prevedevano un diverso livello di dipendenza dalle scelte strategiche degli Stati Uniti ma con modalità e finalità diverse da quelle italiane. In concreto, l’annessione della DDR e il conseguente adeguamento della sua struttura economica e di rapporti giuridici a quella federale impose l’istituzione della Treuhandanstalt, una apposita enorme agenzia che aveva acquisito la proprietà di tutto il patrimonio economico e industriale della Germania Orientale. Il trust divenne il terreno di scontro di una strategia più dirigista che prevedeva il mantenimento di una struttura organizzativa con pochi centri la quale sapesse sfruttare l’integrazione economica e i legami decennali con la Russia e i paesi dell’Europa Orientale intessuti nel COMECON per costruirsi una posizione politica ed economica molto più autonoma; parallelamente, la gestione di allora della Deutschbank intendeva perseguire, già alcuni anni prima della caduta del muro, una massiccia politica di finanziamento agevolato dei paesi europei orientali tesa a riconvertire gradualmente le economie e connetterle alla regione tedesca ma con una maggiore considerazione del ruolo della Russia; la strategie alternativa prevedeva la semplice frammentazione e annessione della struttura industriale superstite nel vigente complesso finanziario-industriale. Il primo indirizzo prevalse sino alla morte di Herrhausen, presidente di Deutschbank, nel 1990 e di Detlev Karsten Rohwedder, presidente di Treuhand, il 1° aprile 1991. Gli attentati furono attribuiti alle redivive Brigate Rosse Tedesche, ma la perfezione dinamitarda del primo, degna del migliore dei servizi segreti al momento operativi e la perfezione balistica e permeabilità del sistema di sicurezza del secondo, lasciano intravedere ben altre manine e finalità politiche. Sta di fatto che da allora Deutschbank consolidò progressivamente la sua inarrestabile ascesa nel firmamento finanziario angloamericano sino alla sua attuale solida collocazione come quarta banca d’investimento ben inserita nella piazza di New York; Treuhand a sua volta modificò e attuò visibilmente una strategia di annessione molto più conformista rispetto alla disposizione della scacchiera geoeconomica.
Per evidenti ragioni topografiche, le sedi di dettatura delle strategie imperiali in quel paese non potevano essere un panfilo, quanto piuttosto un albergo; data la sua solidità intrinseca e il grande beneficio che comunque il paese ha saputo trarre dalla sua collocazione occidentale, il tipo di intervento sarebbe stato quindi molto più selettivo e circoscritto e, più discretamente, avrebbe dovuto insinuarsi all’interno del gioco politico dei partiti, piuttosto che destabilizzarli totalmente.
Questa strategia, però, in quel decennio ha dovuto affrontare almeno due altri banchi di prova decisivi prima di affermarsi definitivamente per un ragionevole lasso di tempo.
Il processo di allargamento e integrazione militare della NATO con la richiesta da parte soprattutto di Francia e Germania di assumere a rotazione anche il comando supremo della struttura militare e l’intenzione dei due paesi di istituire un corpo militare comune, entrambi i propositi arenatisi impietosamente; la frammentazione della Jugoslavia caldeggiata a piè sospinto inizialmente soprattutto dalla Germania, a scapito di Russia e Francia; gestita, in seguito, sempre più dagli Stati Uniti con il sostegno aperto dell’Italia e qualche attrito con l’alleato tedesco culminato e sancito con la cattura del kosovaro Hashim Thaci per crimini di guerra da parte dei tedeschi e la successiva sua liberazione ad opera degli americani con la complicità italiana sino all’assunzione della carica di Capo di Governo fantoccio.
EPILOGO TEMPORANEO
La successiva introduzione dell’euro e l’allargamento della NATO e dell’Unione Europea ha definitivamente sancito la creazione di un’area di influenza tedesca più diretta nell’Europa Centro-Orientale e più mediata sui paesi dell’Europa Occidentale ma sempre più in qualità di potenza regionale subordinata agli interessi geopolitici americani e ancora ben integrata in quei disegni.
In questo processo, l’Italia, per la Germania, diventa un paese meno indispensabile e complementare economicamente, vista l’alternativa offerta dai paesi slavi circostanti e da ridimensionare economicamente come concorrente e politicamente in quanto possibile sponda alternativa per gli americani e in subordine i francesi.
Su questo Galloni ha ragione; glissa, invece, quando non vede la profonda connivenza dei tre paesi, ma con il determinante e ingombrante peso di quei centri di potere americani, attualmente rappresentati da Obama, nell’indebolire e assoggettare il paese con i tedeschi impegnati al controllo logistico e, parzialmente, finanziario e alla distruzione dell’apparato produttivo intermedio, i francesi impegnati nell’appropriazione della rete commerciale, di aziende di servizio e di marchi e gli americani impegnati puntualmente e selettivamente ad acquisire la polpa dell’industria strategica e di base con il gaudio compiacente di quasi tutto il nostro ceto politico e controllare i processi finanziari; un aspetto, quest’ultimo, particolare della strategia americana di controllo saldo del Bel Paese in funzione di un prossimo decentramento di funzioni nelle varie aree regionali.
Più che una contrapposizione tra “sviluppisti”, personificati dagli americani e “restrittivisti”, impersonati dai tedeschi, si tratta di un contrasto tra “monetaristi espansivi”, patrocinato da chi, gli americani, ha ancora un buon controllo degli strumenti finanziari e monetari operanti nel mondo e i “monetaristi restrittivi” che pur accettando quel dominio e pur facendone parte in maniera subordinata e traendone ancora vantaggi residuali cercano in qualche modo di difendersi tatticamente, di evitare il ruolo di prede inermi e di mantenere contestualmente il ruolo di predatori nei livelli intermedi della catena alimentare.
Quanto all’agognato sviluppo, agli investimenti ottimisticamente sbandierati, si tratta ancora di un richiamo ingannevole ben lungi dall’essere attuato negli stessi Stati Uniti e utile a favorire processi di integrazione, come quello euroatlantico oppure il TPP nel Pacifico, favorevoli alla potenza dominante.
Affermazioni quali gli “USA preda dei britannici”, il rimpianto riguardante l’inutilità e il danno delle guerre e l’enfasi francamente riduttiva sul ruolo trainante e strategico degli investimenti dedicati al recupero e riutilizzo dei rifiuti lasciano quantomeno perplessi. Le stesse guerre, tra l’altro, soprassedendo per il momento alla loro funzione politica, purtroppo sempre attuale, creano dissesti economici ma favoriscono enormi balzi tecnologici e il riassetto geopolitico e dei mercati. Basterebbe verificare il balzo tecnologico e delle strategie militari seguito alla guerra “persa” in Vietnam e quello che sta seguendo la guerra in Iraq e Afghanistan con i riverberi susseguenti nella tecnologia civile. Solleciteremo Galloni ad ulteriori riflessioni su questi argomenti, vista la messe di dati interessanti di cui comunque dispone.