Il surrealismo, oggi. Una piantagione di marijuana comunale e un libro alto cinque metri

Creato il 01 marzo 2012 da Sirinon @etpbooks

Tutti più o meno conosciamo o comunque abbiamo informazione di quel movimento artistico, prevalentemente, che ebbe inizio con il novecento, giusto il tempo di riaversi dalla prima guerra mondiale e lasciato sopire il futurismo, con il quale conservò, almeno inizialmente, un qualche rapporto di parentela, che fu definito surrealismo. E fin qui è storia, salvo ricordare che il surrealismo nacque affinché il sogno riuscisse ad avere una sua identità nell’espressione umana, una identità lecita e con una dignità che i fatti dimostreranno ben superiore a quella della realtà stessa già violentemente messa a dura prova da esperienze come quella marinettiana in campo artistico e freudiana in campo scientifico.

Non a caso il manifesto che accompagnò il movimento, nel 1924, stilato da personcine un poco irrequiete come André Breton e Guillaume Apollinaire - tanto per prendere due eccelsi esempi - così nel suo incipit affermava: “Il Surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d'associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita”. Il beneficio che concediamo loro è che si trattava di una proclamazione culturale, che voleva stravolgere l’indagine artistica attraverso una lettura della realtà che fosse in verità una lettura del sogno e dell’inconscio, portatori di un mondo dai confini ben più vasti di quanto la realtà stessa, per le costrizioni dovute alla percezione dei sensi, potesse presentarci. Orbene il problema diventava poi rendere tutto ciò un linguaggio comprensibile. La fatica maggiore era infatti esplorare il mondo dell’inconscio e del sogno e riportarne, con il supporto delle tecniche espressive, una impressione che potesse essere compresa all’interno di quello stretto sentiero che i cinque sensi ci potevano offrire. In altre parole, per una migliore comprensione dell’operazione si trattava semplicemente di far passare un cammello dalla cruna di un ago (con buona pace del proverbio e dell’errore che con sé si porta dietro da secoli, visto che il cammello, quello lì almeno, non è mai esistito). Come tutti i movimenti artistici anch’esso ebbe la sua fase di ascesa e il suo momento di massimo splendore allorquando i grossi calibri come Picasso o Dalì vi si immersero e ne seguirono la strada. Piano piano quello tsunami che sembrava tutto sommergere da quanto immenso pareva essere nel riversare sul tavolo del reale le vicende inconsce, subì gli effetti dell’overdose, si frammentò in specializzazioni, ciascuna delle quali a sua volta intraprese percorsi diversi divenendo ora metafisica, ora astrattismo, ora costruttivismo, ora ancora esperienze più selettive, riservate a pochi, quali l’action painting, l’iper-realismo e tante, tante altre ancora, fino ad approdare a quell’arte contemporanea (almeno per adesso, ma tutto cambia nel tempo…) che ha raggiunto il confine con il paradosso, praticamente frammentando l’universo artistico nell’esperienza personale e personalizzante. Come dire, un artista, un movimento, una corrente.

Resta inequivocabile il fatto che il surrealismo ha avuto non solo la capacità di sintetizzare ed amalgamare intorno a sé i tanti rivoli in cui l’espressione artistica e culturale stava disperdendosi, diventando sia movimento all’interno del quale si mossero artisti di tutto il mondo occidentale, sia perché offrì, altrettanto universalmente, un cammino nuovo ed inesplorato che si é poi dimostrato senza fine ed anzi, oggi che l’interpretazione della realtà è ritornata oggetto dell’indagine culturale, lo stesso ogni tanto fa capolino, diventando parzialmente quel rifugio ove possa l’artista ripararsi, allorquando l’incontro/scontro con la realtà sia privo di risposta soddisfacente ovvero, non approdi a risoluzione. Da camera di amplificazione dunque i surrealismo è divenuto rifugio, esperienza personale, tormento esistenziale che va osservato e non condiviso in quanto esperienza del singolo, dal cui uso si può o meno tentare di ricevere una sensazione, ma che certo, in quanto personale, è al di sopra di ogni oggettivabile comprensione (salvo nel caso in cui il tutto e l’uno si confondono, ma .. così poi andiamo in confusione anche noi). Il compito della comprensione è infatti oggi, quasi sempre delegato al critico ed è a lui che facciamo, spesso non rendendosene conto, riferimento, allorquando accettiamo una interpretazione di qualcosa che ci resta misterioso e indigesto talvolta, il cui significato espresso dall’uno o dall’altro vate può rendercelo più verosimile. L’artista dunque diventa in realtà strumento affinché il critico colloqui con il pubblico. Un tramite spesso e niente più.

Ma il surrealismo vero, quello esiste ancora, solo che ha trovato altri percorsi ove esprimersi, riprendendo dall’arte ciò che gli aveva donato, ovvero la capacità di percorrere un cammino senza fine dove i sensi non intravedono il significato inteso come l’imbrigliamento della logica, bensì l’infinita gamma degli accostamenti che la lettura del vero fatta con gli occhi dell’inconscio può offrire. Anche nella pratica delle cose. Tornando così a perpetuare quel cammino che aveva inizialmente segnato all’atto del manifesto programmatico: “…Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita”. E poiché la vita, specie quella pubblica sta fornendo ampio ed abbondante materiale per una ricerca di soluzioni che oggi, con molto più glamour potremmo definire “necessariamente creativa” ecco che l’intraprendente giunta comunale del paese di Rasquera in Catalogna (Spagna) ha deciso, diremmo in modo squisitamente surrealista, di riassestare il bilancio pubblico, in deficit per circa un milione e mezzo di euro, dando in concessione all’associazione “Abcda” (Asociacion Barcelonesa Cannabica de Autoconsumo) che raccoglie intorno a sé oltre 5.000 consumatori, come si evince dal loro sito, di “..cannabis di coltivazione propria per finalità ludiche e terapeutiche…”, alcuni appezzamenti di terreno. Bene. Nel senso che evidentemente nelle pieghe delle leggi spagnole, fra l’altro abbastanza complesse per l’enorme autonomia delle varie regioni, esistono appigli per i quali, sotto severa regolamentazione, è possibile che il comune conceda l’affitto di questi terreni per la coltivazione della marjiuana o della cannabis, da tenersi evidentemente sotto stretta sorveglianza in base al progetto presentato alla giunta che l’ha spuntata per 4 voti favorevoli a 3, rispecchiando perfettamente le consistenze di governo ed opposizione, presenti tutte al completo per lo storico evento. Ciò che diviene ancora più formidabile è il fatto che in soli due anni (svelta la piantina a produrre!) il debito sarebbe estinto e, negli anni a venire, praticamente, la piantagione diventerebbe una fonte di reddito importante per il comune che, oltre tutto, vedrebbe impiegata una cinquantina dei suoi 900 abitanti, in compiti di sicurezza. Praticamente una cittadella di sceriffi. E tutto ciò alla faccia di ogni e qualsiasi debito da contrarsi con banche, istituzioni, governi, commissioni, sovvertendo completamente la regola oramai da tutti praticata per la quale i debiti si riassorbono con nuovi debiti in una scala senza fine. E tutto ciò, per lo meno ai dati ufficiali, è stato ideato e progettato senza avere per il momento fatto uso preventivo alcuno del prodotto medesimo ma semplicemente trovando in una applicazione pratica neo-surrealista la soluzione del problema. Non oso pensare agli effetti, ma non tanto quelli della coltivazione stessa, quanto quelli del precedente che verrà a crearsi una volta che l’amministrazione centrale avrà dato il suo via libera. M’immagino già un fiorire sia di associazioni di liberi consumatori (e sì che nella sola Spagna ne esistono già 150, molte delle quali mostratesi ovviamente interessate al progetto) che alfine usciranno dal poco dignitoso apparente nascondiglio in cui fino ad oggi la legge li tiene confinati, nonché, penso, alla legge stessa che, se verrà riconosciuta la fattibilità legale dell’operazione, nella sua onnivora natura ben troverà un’apposita gabella da apporsi sulla lecita “maria”, aumentando così il numero delle droghe concesse ed apportatrici di lucro, a discapito se non altro di certe multinazionali che si vedranno soffiare una presumibilmente crescente fetta di mercato da prodotti artigianali e soprattutto DOC in virtù delle differenti fragranze che ogni luogo di produzione potrà offrire, sicuramente meno catramose delle sigarette e dei tabacchi da secoli liberamente venduti. Questo, senza tener conto di riconosciute, seppur non fondamentali, valenze terapeutiche come prodotto naturale in grado di apportare sollievo alla sofferenza in malati terminali al posto di antidolorifici chimici e, soprattutto, fino a che la Monsanto non troverà, come suo costume, di che comprarsi direttamente la pianta per farne un bell’OGM privato. Con buona pace infine degli eredi di Casa Escobar che inizieranno a vedere i primissimi cenni di recessione nel cartello.

Resta il fatto curioso di come la giunta comunale di Rasquera sia potuta arrivare a concepire un tale progetto. L’ipotesi che più attendibilmente  viene da caldeggiare è che la cosa sia stata magari accennata come boutade, in un momento ove le idee sembravano scarseggiare e tutto dava l’impressione di far convergere verso i soliti mutui pubblici che, evidentemente, la giudiziosa giunta voleva a tutti i costi evitare. E quindi non trovando niente nel lecito e nel consueto, siamo arrivati all’iperbole, al paradossale se vogliamo perché anche la Spagna di fatto ha una severa legge contro l’uso di droga, per sconfinare poi in un cammino surreale per il quale se l’idea non era nella realtà ordinaria si è fatto in modo che la stessa si addomesticasse all’idea. In altre parole se Maometto non intendeva andare alla montagna, ce lo avremmo costretto.  Ed è proprio Maometto, profeta tra i profeti, che ci porta, nello stesso giorno, quasi avessimo assaggiato il nuovo prodotto spagnolo, in un mondo di meraviglia dove anche qui, surrealmente  gli oggetti mutano nelle loro valenze sociali e nelle dimensioni che divengono oniriche, facendoci sentire tanti conigli e tante Alice in un paese che comunque, atroci o deliziose che siano ci presenta ogni giorno meraviglie. E’ un libro stavolta, dal titolo “Vi presento Maometto”, realizzato per gli Emirati Arabi. Ha soltanto una particolarità: consta di 416 pagine il cui peso è di 1.500 chili per una dimensione di 5 metri x 4. Ad esso hanno lavorato oltre 100 persone (in Germania ovviamente) durante 16 mesi, per il gruppo editoriale Mshahed International di Dubai. Di fronte ad esso come non sentirsi tanti personaggi dell’immarcescibile fiaba? O accaniti , forse, fumatori della iberica maria? O forse ancora, preda di un surreale sogno per il quale i nostri vecchi surrealisti avrebbero il loro bel daffare a interpretare? Ma qui se pur più semplice è la spiegazione essendo Dubai terra votata all’eccesso sfrenato in ogni sua manifestazione, il fatto di voler, nel frontespizio del libro stesso, raccogliere oltre un milione di firme, facendone una itinerante testimonianza, visto che verrà esposto in un tour mondiale prima di essere esposto nella sua sede definitiva che altro non poteva essere se non un centro commerciale, a testimonianza non tanto dello scopo culturale dell’operazione, quanto della sua valenza commerciale (sono previste infatti edizioni tascabili dello stesso in numero spaventoso ed in moltissime lingue), rende il progetto ai limiti del vero, anche per la complessità degli spostamenti stessi. E ciò senza nulla togliere alla qualità del contenuto che è frutto di un lavoro congiunto tra studiosi e teologi dell’islam e commissioni di altre confessioni religiose, proprio al fine di evitare stereotipati equivoci. Ma ciò che riesce a calamitarmi è il vederci tutti in fila,  formiche sulla carta come quelle che spesso ci disturbano sulle tavole in campagna, per raggiungere la penna ed il luogo ove poter apporre la firma per lasciare la propria presenza (qualcuno qui se già non l’ha fatto freme per l’urlo che l’identità collettiva sta fornendo davanti a tutto questo) Quanto sarà grande la penna? Ci sarà molto da camminare? Ci portano in autobus? Ce la faremo a tornare prima della chiusura? Con la paura in fondo che un enorme scapaccione, magari dato da Maometto stesso, ci possa schiacciare  aggiungendo così il surreale dantesco nello scontar la pena che - ahimé - ignari abbiamo più e più volte inflitto alle formiche. Insomma con i sensi sovvertiti qui non tornano le misure. Niente più torna in fondo e questo non è necessariamente un male perché in questa smania di fuggire da un ordinario che per i più è tristarello in fondo, il sogno e con esso fantasia e creatività sopraggiungano dunque a portarci quel colpo di vento che ci faccia fuggire come tanti Münchausen verso approdi più sereni. Un libro di cinque metri? Una coltivazione comunale di “maria”? Cos’e pazz!



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