Il 2015 si è alquanto distinto nel panorama del cinema d’animazione: è il primo anno a non ospitare un nuovo lungometraggio realizzato dalla Disney (l’ultimo caso si era registrato nel 2006) e a vedere invece una doppia produzione targata Pixar, genitrice del capolavoro che fra qualche mese verrà giustamente insignito dell’Oscar (“Inside Out”) e del secondo cartoon di famiglia che abbia come protagonisti i grandiosi animali preistorici (il primo fu “Dinosauri” nel 2000, 39esimo classico Disney).
“Il viaggio di Arlo” costituisce inoltre una sottolineata riprova del fatto che, come accaduto con “Ribelle – The Brave” nel 2012, quando in corso d’opera intervengono clamorosi ritardi, licenziamenti, pesanti modifiche del soggetto e dello script, oltre a repentine sostituzioni di personale (l’ideatore e regista in origine era Bob Peterson, fino a quando nell’ottobre dell’anno passato è stato chiamato a prendere il suo posto Peter Sohn, pure al lavoro sullo stesso progetto fin dal lontano 2009), il prodotto finale inevitabilmente ne risenta in qualche sua parte, nella forma come nel contenuto.
Il 16esimo film dello studio di Emeryville si propone di immaginare cosa sarebbe successo se l’asteroide che ha provocato l’estinzione dei dinosauri 65 milioni di anni fa non avesse intercettato il pianeta Terra. La risposta si può riassumere affermando che l’evoluzione naturale avrebbe (inaspettatamente) interessato gli stessi giganti del passato, inventori dell’agricoltura e dell’allevamento (così come delle attività illecite ad essi legate) ben prima del genere umano.
Permessa di conseguenza un’irrealizzabile sovrapposizione temporale, il piccolo e pavido Arlo viene strappato dalla propria famiglia per mano di madre Natura, abbandonato in territori sconosciuti dove imparerà a relazionarsi col “parassita” che Papo gli aveva incaricato di eliminare, prima della prematura scomparsa avvenuta proprio durante l’estrema caccia al ladro di provviste.
Lo sfruttatissimo cliché della morte del patriarca/tutore, di ascendenza smaccatamente disneyana (rinvenibile in “Big Hero 6” e “Frozen – Il regno di ghiaccio”, per limitarci alle apparizioni più recenti), consente al protagonista di empatizzare con Spot, cucciolo d’uomo dalla grinta entusiasmante, e ad affezionarglisi definitivamente una volta emersa la condivisa nostalgia dei padri, espressa con genuina elementarità attraverso la figura del cerchio conchiuso, una delle significative soluzioni non-verbali che permettono nel corso della vicenda la comunicazione fra le due specie, con particolare riguardo per gli snodi tragici, che sanno godere di un’apprezzabilissima assenza di dialoghi.
Non a caso, “Il viaggio di Arlo” decolla proprio quando rinuncia al superfluo, al didascalico, al risaputo (si veda, su tutti gli episodi, la parabola esordiale, che vanta una sceneggiatura a tratti davvero debole, inzaccherata di patetica ordinarietà); quando si focalizza con indubbia efficacia sull’improbabile rapporto che si instaura fra i due giovani; quando spiazza lo spettatore inserendo improvvise svolte di tono che svelano l’a tratti macabra realtà celata dietro un’ilare apparenza; quando riflette sulla necessità della paura nelle traversie dell’esperienza terrena, fomentatrice di vita, antidoto alla morte, quest’ultima “pindaricamente” allontanata a sua volta da una nutrita serie di limpide apparizioni di contorno (veri e propri cameo del regno animale, come le orde di graziose creaturine); quando esaurisce la storia con pertinenza, in un epilogo felicemente accostabile a quello de “L’era glaciale” (2002).
Tuttavia, l’aspetto per cui il film di Peterson-Sohn dovrebbe essere ricordato e rispettato è più di tutti la magnifica resa scenografica degli ambienti: la perizia tecnica, da sempre fiore all’occhiello di casa Pixar ed elemento d’indiscutibile distinzione, raggiunge livelli d’inedito realismo nelle rappresentazioni delle vaste foreste, sovente inquadrate attraverso movimenti aerei, dell’ondeggiare dell’erba e delle fronde, dello scrosciare impetuoso dei flussi d’acqua o della traslucida placidità di certi riflessi, dei moti vigorosi o eterei delle nubi.
Non incantano né annoiano le note scritte dai fratelli Danna (Mychael, premiato con l’Oscar per “Vita di Pi”, e Jeff), new entry dopo il singolo caso di Patrick Doyle (“Ribelle – The Brave”) accanto alle colonne Randy e Thomas Newman e Michael Giacchino (tutti e tre ben noti fra i membri dell’Academy). Nella versione italiana, durante i crediti di coda, si può ascoltare “Siamo uguali” cantata dal ventenne Lorenzo Fragola.
Forse la mancanza di quella disinvoltura tipicamente Pixar negli sviluppi della trama e dei personaggi ha concorso, nonostante un generale placet da parte della critica, a fornire incassi così deludenti da non riuscire a ricoprire (ad oggi, perlomeno) l’imponente budget di 200 milioni di dollari; ma è pur sempre vero che l’ascesa non è ancora finita (mancano all’appello Giappone e Cina, il primo dei quali introdurrà il lungometraggio a marzo 2016).
A confronto, il succitato “Dinosauri” incassò 349 milioni a fronte dei 120 necessari alla produzione; merito (e non fortuna) vuole che gli introiti derivanti da “Inside Out” sappiano comunque aggiustare il bilancio senza troppe difficoltà. Purtroppo, è probabile che la palese confezione “da Oscar” annebbi il giudizio su altri titoli coevi che superano di non poco in audacia il presente, il quale nondimeno quasi infallibilmente strapperà l’agognata nomination a gennaio.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni