«Alla base di questo lavoro – spiega Bucciantini – c’è una frase di Calvino che dice: “scrivere ha senso solo se si ha di fronte un problema da risolvere”. Questo è il pensiero di fondo che ci ha perseguitato durante l’intera stesura del nostro libro. L’idea ci è venuta osservando gli studenti che guardavano l’unica lente, rotta, che ci è rimasta di Galileo, e che ora è conservata presso il museo di Firenze. Abbiamo visto che si avvicinavano incuriositi a questo oggetto, ma ne restavano un po’ delusi. Il nostro progetto fondamentale è stato quello di partire proprio da questa lente, che nel 1609-1610 ha modificato profondamente il rapporto tra il nostro vedere e il mondo. Il secondo progetto è stato di scrivere un libro di divulgazione, che non ricostruisse soltanto delle storie, ma le raccontasse a tutti. La storia più importante è quella del telescopio, uno strumento che “abita” in tanti luoghi, che vaga per tutta Europa ricevendo giudizi diversi, vedendo cose sempre diverse».
Ma Galileo non è stato il primo a puntare il telescopio al cielo... C’è stato almeno un altro studioso, l’inglese Thomas Harriot – spiega Camerota – che ha osservato la luna attraverso questo strumento, e ne ha dato una sua rappresentazione con esiti molto lontani da quelli raggiunti da Galileo. C’era da vincere una certa resistenza culturale, perché il telescopio era visto come qualcosa di distorsivo, che mostra delle immagini deformate o delle vere e proprie allucinazioni. Tutto cambia, anche per lo stesso Thomas Harriot, con la lettura del Sidereus Nuncius di Galileo, un libro rivoluzionario che riporta tutte le sue osservazioni del cielo.
Si tratta di scoperte – continua Giudice – che demoliscono l’intera cosmologia del tempo. Dalle osservazioni della luna e dei satelliti di Giove, Galileo scopre che non c’è nessuna sostanza cristallina, eterea, e questo mette in crisi non soltanto le conoscenze scientifiche, ma l’intero modo di vedere il mondo. L’ambasciatore inglese a Venezia, dopo aver letto il libro nello stesso giorno in cui è uscito dai torchi dello stampatore, scrive una lettera a Giacomo I d’Inghilterra, in cui gli dice, tra le altre cose, che l’autore di tale libro “rischia di diventare o troppo famoso o troppo ridicolo”. Quell’ambasciatore non si sbagliava.
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