2009: The Time that Remains di Elia Suleiman
Accolto da grandi applausi a Cannes 2009, un film epico e, al contempo, intimista che il Guardian ha giudicato “a cool, controlled masterpiece”.
Richiamandosi a Chaplin e Tati ma soprattutto a Buster Keaton -il protagonista ha sempre “la stessa faccia incredula, malinconica e impassibile” (Liberazione)-, con uno stile che ricorda Ionesco e Beckett, Elia Suleiman (nato e cresciuto a Nazareth, fra «quei Palestinesi che decisero di restare e che furono etichettati come Arabi israeliani, vivendo da stranieri in patria») descrive la sua famiglia (Il tempo che ci rimane è un film autobiografico in quattro episodi ispirato ai diari del padre e alle lettere della madre). Offre altresì un affresco di storia, dal 1948 ai giorni nostri, su un popolo che non ha più voce (il protagonista resta muto per tutto il film): dalla prima resistenza alle nuove generazioni politicamente apatiche e ad altro interessate. Naturalmente non è obiettivo il regista-attore-sceneggiatore ma, come nota giustamente Boris Sollazzo, il suo è “un occhio di parte, è vero, ma che ha a cuore l’umanità e la disumanità di un teatro di guerra -mai come in questo film si rivela una definizione esatta e calzante- in cui gli attori sono pedine in mano ai capricci grotteschi del Potere”.
Surreale e delicato, poetico ed elegante, ironico e distaccato, bizzarro e grottesco, minimalista e massimamente controllato: un film non certo facile ma che sarebbe un peccato lasciarsi sfuggire.
Da condividere in pieno quanto scrive Lietta Tornabuoni su L’Espresso:
“Il film bello e (paradossalmente) divertente è soltanto una delle opere non del tutto commerciali né nazionali o americane alle quali viene concesso d’estate o semi-estate di raggiungere il pubblico, nella frenesia quattrinaia dell’attuale distribuzione italiana: vale la pena di approfittare della calda stagione d’autore”.
p.s.
Interessante l’osservazione su L’Unità che fa Alberto Crespi:
“La domanda è ovvia: Il tempo che ci rimane è un film d’attualità? Suleiman vi risponderebbe che l’attualità, dalle sue parti, non passa mai di moda. A noi viene da dire che la sua attualità consiste non nello spiegare perché ebrei e palestinesi siano in perenne conflitto (quello, dovremmo saperlo da soli), ma nel raccontare come, dal ’48 a oggi, siano riusciti nonostante tutto a sopravvivere, talvolta addirittura a convivere. L’ironia ha avuto un ruolo importante. E, no!, non è esclusiva degli ebrei”.