C’è un che di nostalgico nel mio rapporto con il tempo: la sua costante mancanza mi procura un fastidioso nodo alla gola e una diffusa malinconia. La sensazione è quella del tempo perduto, che nessuna ricerca potrà mai restituirmi o del tempo sprecato, che mai si trasformerà in ricordo.
Questi frammenti di pensiero sono stati fulmineamente portati in superficie dal titolo di un articolo trovato tra le pagine del numero 8, agosto 1941, di Coelum , gloriosa rivista di astronomia del’osservatorio di Bologna: “Come i Romani computavano le ore” scritto da Paolo Vocca.
Un vago ricordo riaffiora dagli anni del ginnasio, quando, in classe, si leggeva un epigramma di Marziale e quell’arguto racconto di come si svolgesse una una giornata a Roma, faceva pensare a uno stile di vita in cui lo scorrere del tempo non avesse nulla di ossessivo, ma semplicemente accompagnasse le attività lavorative e ludiche condotte senza frenesia alcuna.
VIII
La prima e la seconda ora vanno per il saluto mattutino
La terza è occupata dai legulei arricchiti, fino alla quinta Roma svolge varie attività
La sesta è dedicata al riposo per chi è stanco
La settima ne segna la fine
Basta per dedicarci alla lucente palestra ,l’ora ottava fino alla nona;
l’ora nona ci sollecita a sederci sui cuscini ammonticchiati per il pranzo
L’ora decima è dedicata ai miei libretti, Eufemo,
quando ti dai cura di preparare le vivande divine e il magnanimo Cesare si ristora col nettare celeste e tiene le piccole coppe nella grande mano, allora introduci i miei scherzi: la nostra Talia esita a venire con un atteggiamento confidenziale dal nostro Giove per rendergli il saluto mattutino.
Ora prima, ottava … modo bizzarro di dividere la giornata, così complesso da rendere praticamente impossibile l’uso di un orologio. Strano che un popolo così storicamente attivo, avesse un rapporto talmente amichevole con il tempo, da non desiderare di imbrigliarlo, dominarlo, sottometterlo alla stregua di un nemico da combattere!
Come l’articolo di Coelum dettagliatamente racconta ecco in che modo i Romani avevano diviso la loro giornata:
“ considerando il giorno civile nettamente diviso in due periodi fondamentali – il giorno , dall’ alba al tramonto del sole e la notte dal tramonto di quest’ultimo al suo successivo levare- essi, divisero dapprima detti periodi ciascuno in quattro parti. A partire dal III secolo a.C. suddivisero sia il giorno che la notte in 12 ore”
Ne venne naturalmente una diversa durata dell’hora a seconda che questa fosse diurna o
Consideriamo il solstizio d’estate: il sole a Roma sorge alle 4,27’ mentre al solstizio d’inverno sorge alle 7,33’. Il tramonto sarà alle 19,33’ in estate e d’inverno alle 16,27. È quindi evidente che lo spazio da dividere in 12 parti risulta molto diverso a seconda dei giorni dell’ anno e, in particolare, al solstizio d’estate la notte dura 8 ore e 54 minuti mentre al solstizio d’inverno 15 ore e 6 minuti.
Al solstizio d’estate l’ora diurna valeva circa 75 minuti mentre la notturna era di circa 45 minuti, l’inverso succedeva al solstizio d’inverno. Solo nei giorni dell’equinozio notte e giorno hanno la stessa durata e l’Hora dei romani coincide con la nostra.
L’orario, inoltre, cambiava anche in funzione della latitudine poiché variano gli istanti del sorgere e del tramontar del sole in uno stesso giorno. Il sistema utilizzato dai romani, quindi, portava a diversi valori di durata dell’ora, in una medesima epoca del’anno , tra un luogo e l’altro del loro sterminato impero. Nonostante la suddivisione in 12 ore, venne conservata anche la precedenti divisione in quatto parti sia del giorno che della notte. Ognuna di queste ultime veniva così a comprendere tre ore : l’ hora prima aveva inizio con il levare del sole, la terzia iniziava tre ore dopo e terminava a mezzogiorno,sexta la parte che iniziava a quest’ultimo istante, nona quella che iniziava tre ore dopo il mezzogiorno e finiva al tramonto. Dopo quest’ ultima iniziavano le vigiliae, quattro dal tramonto all’alba: prima, secunda, tertia, quarta vigilia.
Pur senza aggiungere precisione a un sistema così vago di indicazione del tempo , i romani utilizzavano anche altre locuzioni per indicare parti del giorno e della notte.
Appare a questo punto evidente che anche il miglior orologiaio svizzero (barbaro ) avrebbe avuto terribili difficoltà nel costruire un orologio! E infatti i romani non avevano strumenti che dessero una costante e rigorosa suddivisione del tempo. Ebbero, è vero, clepsydrae od horologia ex aqua, ma dovevano venir regolati della provvista d’acqua, che a seconda del periodo, doveva defluire affinché, con lo spostamento del galleggiante potessero indicare lo scorrere delle successive 12 ore. La clessidra, però ,poteva servire a misurare con esattezza il decorrere di un certo spazio di tempo, cosa molto utile per regolare i tempi di funzioni giudiziarie o amministrative.
Gli unici orologi possibili, con un sistema del genere, erano gli Horologia solaria che, oltre
Questo privava i Romani di tutti quei fastidiosi oggetti da tasca, da polso, da tavolo, da muro, Dannazione, che sono divenuti parte integrante e irrinunciabile della nostra vita.
Per concludere questa breve intrusione nella vita di quel popolo, che fu così impegnato a conquistare il mondo da dimenticare di imbrigliare il tempo, mi sembrano adeguate le parole che Plinio scriveva a Minicio Ondano in una lettera che gli manda mentre è nella sua villa laurentina, lontano dalla città. Lo scrittore, dopo uno spietato confronto tra la frenetica vita che conduceva in città e quella in solitudine trascorsa tra la cura del corpo e dello spirito, che ora conduce in villa, conclude con queste parole:
Anche tu dunque, appena ti sia possibile, lascia questo strepito, questo inutile correre qua e là, codeste frivole faccende e dedicati agli studi e anche all’ozio ché val meglio- come saggiamente e insieme argutissimamente disse il nostro Attilio – stare in ozio che non far nulla.
Se ora sentite il bisogno di gustare tutta la malinconia dell’incombere implacabile del tempo, consiglio Tempus fugit e oscuri pensieri vi avvolgeranno inquietanti.