Mentre vivevo a Jaipur strinsi una solida e consistente amicizia con la mia padrona di casa che occupava l’appartamento sovrastante il mio nella villetta di una silenziosa stradina del quartiere Civil Lines dove si trova la stupenda residenza del governatore del Rajasthan.Man mano che lei, con prudenza e spirito di osservazione, comprese la natura della mia personalità, iniziò a raccontarmi le sue speranze, le sue angosce e le ritualità di preghiera, sue personali e della famiglia.Sucheeta, questo il nome della signora, funzionaria di banca che aveva cresciuto con amore due bellissimi figli, il suo orgoglio, e aveva accudito e continuava a farlo, un marito,in passato incurante e indifferente (almeno sul piano emotivo) rispetto a tutto il piccolo nucleo familiare. Senza dubbio, Sucheeta aveva avuto costanza e coraggio, fermezza e stabilità, sostenuta dalla fede che Dio avrebbe provveduto a ricompensarla e sanare le ferite del suo cuore inferte da un marito molto egoista che lei aveva servito e continuava a servire con devozione anche ora che era colpito dal Parkinson giovanile. Dopo alcuni mesi di sereni rapporti di buon vicinato, diventammo amiche e mi offrì di recarmi con lei, ogni giovedì, da una sua parente che offriva preghiere e canti a un santo, saggio e poeta Sufi di cui conservava gelosamente una statua arrivata fino a Jaipur dal Pakisthan quando i genitori della donna, Sindhi per casta, avevano lasciato il Pakisthan ese ne erano tornati in India ai tempi della “partition”.Accettai volentieri di prender parte a questi incontri. Andavamo sempre in tre perché Sucheeta aveva un’inseparabile amica del cuore, un’insegnante di scuola elementare sua coetanea. Eccoci qua, pronte per la cerimonia, prima di uscire di casa, immortalate, sul balcone di Sucheeta, da un'amica italiana in visita. Il pomeriggio del giovedì era sempre una festa per noi, per stare insieme in una dimensione diversa dalle nostre solite abitudini.
Sucheeta in bianco alla mia sinistra, a destra Jyoti, la sua amica
Non mi ci volle molto per comprendere che la depositaria della statua, gelosamente custodita nella stanza puja della casa, era una veggente.Al nostro arrivo nella casa, ci accomodavamo, sedute a terra, su stuoie, la statua era posta in alto rispetto a noi, su uno scaffale. Ricordo bene il mantello e il turbante colorati di verde che avvolgevano il santo che lei chiamava “Sachal Sarmast” che significa “santo estatico di verità”.
a cui erano ammessi gli uomini della casa o del vicinato che si mantenevano in gruppo e nel retro rispetto al gruppo femminile che si stringeva intorno alla veggente.
Abbiamo sognato insieme, a quei tempi, di pianificare un viaggio fino alla tomba del santo sufi, in Pakisthan, lei lo desiderava molto e io consideravo un privilegio poter compiere questo pellegrinaggio con loro ma poi, come la veggente aveva previsto, gli eventi precipitarono e non ci fu più modo di portare a compimento il nostro progetto.
Tomba del Santo
E forse, Sachal Sarmast, quello che aveva da dirmi me lo aveva fatto sapere al momento giusto e non c’era alcuna utilità nell’andare a visitare la sua tomba soprattutto considerato che, a causa delle continue tensioni tra India e Pakisthan, il viaggio avrebbe potuto risultare pericoloso.