Non ho ancora sofferto, fino ad oggi, del cosiddetto “blocco dello scrittore”. Quando prendevo in mano la matita per scrivere (perché inizialmente riempivo fitte pagine di agenda con le mie prime storie dell’orrore, a quattordici/quindici anni) o mi mettevo al computer, la gestazione era finita e il parto era imminente, esplosivo. Scrivevo e scrivevo e scrivevo. Ma c’era un’altra malattia che minava le mie ambizioni letterarie: il terrore di finire.
Il mio primo lavoro impegnativo, come ho già avuto modo di raccontare, è stato il romanzo Eclissi. È attualmente conservato in un file sulla mia chiavetta, salvato in extremis da un vecchio floppy disk, e forse non verrà mai letto da altri all’infuori di me. Come per altri lavori, le prime pagine presero forma in maniera naturale e ad esse ne seguirono altre e altre ancora. Il progetto era chiaro nella mia mente, il tempo a disposizione tanto, la voglia di emulare si trovava ai massimi livelli.
Nel giro di un anno e mezzo, con pause più o meno lunghe, arrivai a oltre 400 pagine. Scrivevo sull’agenda e battevo a PC, in ogni momento libero. Ma dietro l’angolo cominciava ad aleggiare uno spettro sconosciuto e subdolo. Intuii la sua presenza quando un’idea mi fece aggiungere un nuovo personaggio alla storia, artificio che apriva stradine laterali e aggiungeva pagine a pagine, proprio quando intravedevo la fine. Fui certo della sua esistenza quando, riaffacciandomi nuovamente sull’epilogo del romanzo, scoprii che ogni possibile soluzione (soprattutto quelle che avevo preventivato sin dall’inizio) non mi sembrava all’altezza di quanto avevo scritto.
Per farla breve, Eclissi rimase incompiuto. Lo è ancora e chissà se mai arriverà alla parola fine. Lo misi da parte con la stessa naturalezza con cui l’avevo cominciato, abbandonando la scrittura fino al periodo dei primi racconti di Paura Paranoia Pazzia. E la ragione di quel cambio di rotta non era una scarsa bontà della storia – la quale, comunque, è gravemente affetta da difetti da opera prima e necessiterebbe di abbondanti revisioni – né una perdita di interesse nei confronti della scrittura.
Si trattava invece, come dicevo, del terrore di finire. Una sensazione forte, disarmante, destabilizzante. Un blocco vero e proprio, ma non dovuto alla mancanza di fantasia, bensì al timore di risultare inadeguato, di non soddisfare le attese di chi avesse letto la storia. Di non riuscire, forse, a descrivere le immagini finali che avevo in mente come avrei voluto. Ed era una paura così forte da portarmi ad accantonare un lavoro che pure mi aveva impegnato per mesi.
Ho sperimentato lo stesso terrore durante la prima stesura de L’eredità. A quelle 100 pagine scritte nel 2005 non seguì più niente per sei anni, proprio perché la bontà delle idee che avevo non si sentiva supportata da una adeguata capacità di esprimerle. In quel caso intervennero anche fattori più complessi: la necessità di far combaciare persone, eventi e date; quella di dare credibilità a una vicenda paranormale e di non lasciare spazio a obiezioni; la tentazione di lasciar perdere un’attività che mi avrebbe tolto troppo tempo, lasciandomi poche soddisfazioni. Poi è andata come sapete e per fortuna!
Oggi il terrore di finire è un ricordo. Le esperienze con i racconti di Paura Paranoia Pazzia, che erano funzionali proprio a quel mio “problema”, e il successivo completamento di M@rcelloe de L’eredità mi hanno aiutato a rompere il ghiaccio. Rimane ancora qualcosa, quello sì, come un certo senso di insicurezza nel descrivere le scene finali dei romanzi, che sono le più lette, rilette e rielaborate durante la stesura. Ma in generale ho imparato a considerare il libro come un tutt’uno, un’opera che deve rimanere “alta” dall’inizio alla fine, e a dare la stessa importanza al capitolo 3 e all’epilogo, ad esempio.
Ho imparato, come recita il blog, che non è solo la meta che conta, ma anche e soprattutto il viaggio che ad essa mi conduce.
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