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IL TERZO SGUARDO n.10: Lo sguardo di Ipazia. John Toland, “Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero” e “AGORA”, regia di Alejandro Amenábar

Creato il 02 settembre 2010 da Retroguardia

IL TERZO SGUARDO n.10: Lo sguardo di Ipazia. John Toland, “Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero” e “AGORA”, regia di Alejandro AmenábarIl primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)

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di Giuseppe Panella


Lo sguardo di Ipazia. John Toland, Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero, trad. it. e cura di Federica Turriziani Colonna, Firenze, Clinamen, 20103; AGORA, regia di Alejandro Amenábar, sceneggiatura di Alejandro Amenábar e Mateo Gil, 2009

Scrive John Toland all’inizio del suo breve rapporto su vita e morte di Ipazia, filosofa vissuta ad Alessandria d’Egitto tra il 370 e il marzo del 415 dopo Cristo, una delle figure più straordinarie della cultura ellenistica e donna di rara intelligenza e bellezza:

«Quello che vi narro è un racconto breve ma ricco, come i libri degli antichi, sulla vita e sulla morte di Ipazia; e la mia narrazione canterà per sempre la gloria del suo sesso, e la miseria del nostro: perché le donne non hanno certo pochi motivi per stimare se stesse, e ciò perché è esistita una donna così poliedrica e senza il minimo difetto (e forse l’unica mancanza alle sue innumerevoli perfezioni fu proprio il non avere alcun difetto), che gli uomini devono vergognarsi; se ne possono trovare infatti alcuni, tra di loro, di un’inclinazione così brutale e selvaggia che, lungi dall’applaudire con ammirazione tanta bellezza, tanta innocenza e tanta conoscenza, macchiano con le proprie barbare mani del sangue di una donna di tal fatta, segnando in modo indelebile le proprie empie anime con assassinii dal sapore di sacrilegio. Ad escogitare una morte così terribile fu un vescovo, un patriarca, anzi un santo; ad eseguire la sua implacabile furia, il clero. Nella storia che vado ricostruendo non tralascio di considerare che, tra gli autori, ci furono anche tutti i suoi contemporanei e l’intero panorama culturale della sua epoca (non voglio infatti omettere nulla di ciò che so). Tra questi, un suo collega, e anche un suo allievo. Ma quel che c’è di più odioso e scellerato è legato agli storici ecclesiastici considerati ortodossi nella loro epoca, così come accade, il più delle volte, nella nostra»(1).

Il progetto di Toland, allora, è quello di fare di Ipazia una martire universale della Storia umana e mettere, in tal modo, in rapporto il suo tempo con quello a lui contemporaneo. Ciò gli è possibile proprio perché di lei non ci è rimasto che qualche ricordo in opere polverose e non facilmente consultabili e nessun testo di suo pugno. Della grande pensatrice pagana abbiamo, infatti, solo poche testimonianze dirette, peraltro dubbie circa l’oggettività del giudizio e della valutazione storico-teorica, e il ricordo incancellabile di pochi eletti, sorta di happy few nostalgici.

Certo così il poeta Pallada d’Alessandria. Ancora legato all’antica cultura del paganesimo ormai trapassato, ricorda Ipazia in un testo dell’ Antologia Palatina (Libro IX, epigramma 400)

«Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, / vedendo la casa astrale della Vergine, / infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto / Ipazia sacra, bellezza delle parole, / astro incontaminato della sapiente cultura».

Le opere di questa donna straordinaria non sono più presenti in nessuna biblioteca e di essa non vi è traccia se non i nuda nomina in testi altrui (quelli letti e citati da Toland nel suo breve scritto celebrativo). Eppure il suo nome era ancora tanto famoso da ispirare a Raffaello Sanzio l’idea di sistemare la tua esile e slanciata figura nell’affresco La Scuola di Atene dipinto tra il 1509 e il 1511 per commissione di papa Giulio II e avente come destinazione la Stanza delle Segnatura, parte dell’appartamento privato di quel Pontefice e di alcuni suoi seguaci (che si tratti di Ipazia è considerato dubbio dagli studiosi di quell’opera del pittore di Urbino ma il fatto stesso che sia stata presa in considerazione tale ipotesi è assai più significativo).

Toland – come Federica Turriziani Colonna, curatrice e traduttrice del testo tolandiano nota giustamente a p. 10 della sua Introduzione – non aveva molto cui appoggiarsi per tentare il suo ritratto a tutto tondo della filosofa pagana se non le cronache ecclesiastiche del tempo. Lo stesso si può dire per Alejandro Amenábar per la stesura della sceneggiatura del suo film.

Il film si presenta fin da subito con le caratteristiche di un ”peplum intellettuale” (la definizione è dello stesso regista), con scene di massa, confronti armati di appartenenti a entrambi gli schieramenti in lotta, con momenti forti di tensione e di scontro. Ma, nonostante la volontà di mostrare in atto quel passaggio straordinariamente forte e distruttivo che fu il conflitto tra paganesimo e cristianesimo (per citare integralmente il titolo di una famosa raccolta di conferenze tenute presso il Warburg Institute di Londra realizzata da Arnaldo Momigliano e poi pubblicata da Einaudi nel 1975), il “vero” protagonista di tutto il film è pur sempre il volto di Ipazia (Rachel Weisz), della donna che non volle mai smentire la propria femminilità, anzi la esibì platealmente con quel celebre lancio della pezzuola del mestruo al suo corteggiatore Oreste per spiegargli in concreto come anche lei fosse una donna. E’ nel mostrare la polimatia della scienziata, pensatrice, astronoma, geometra e fisica di rango che il film raggiunge il suo momento più alto – anche se non sapremo mai se davvero Ipazia aveva intuito lo schiacciamento delle ellittiche per spiegare le difficoltà del moto terrestre. Certo, anche nel film di Amenábar ci sono errori non da poco: Sinesio, amico di Ipazia e pensatore peraltro transitato senza colpo ferire dal paganesimo al ruolo di vescovo cristiano di Tolemaide, era già morto (413 d. C.) quando fu perpetrato il massacro del corpo e dell’opera della filosofa alessandrina. Nel film, il suo ruolo è ambiguo e indulge in arti di compromesso e di bassa politica che non gli furono propri in vita. Ma si tratta di un peccato veniale rispetto allo sforzo del regista spagnolo, da sempre laico e da sempre radicale nelle scelte etiche: il suo precedente film Mar adentro del 2004, vincitore di un Oscar per il miglior film straniero e manifesto della libertà di eutanasia, è stato da sempre inviso alla Chiesa Cattolica per le sue rivendicazioni sulla libertà di scelta tra vita e morte in caso di malattia terminale e/o handicap gravissimo (come nel caso di Ramón Sampedro, tetraplegico costretto da un incidente in mare all’immobilità totale in un inutile letto).

Rendere per immagini il destino di Ipazia e, nello stesso tempo, illustrarne le possibili scoperte scientifiche di cui non abbiamo traccia era compito complesso nell’arco di un film che non voleva affatto essere di divulgazione scientifica popolare ma opera cinematografiche totale sia dal punto di vista umano che nozionistico (come le magnifiche biografie – Socrate, Agostino d’Ippona, Cartesius, Blaise Pascal, L’età di Cosimo de’  Medici –  realizzate per la TV da Roberto Rossellini negli anni tra il 1971 e il 1977). Per questo motivo, Amenábar inventa il personaggio di Davo (Max Minghella), lo schiavo cristiano di Teone, padre ormai anziano di Ipazia, che, pur amando la sua padrona, non vuole rinunciare alla nuova fede che vede come il trionfo della sua libertà personale. Nel momento della scelta, Davo riuscirà a dare alla donna che ama una morte dolce e priva di dolore ed evitarle le sofferenze atroci che i parabolani cristiani aizzati da Cirillo vescovo (e poi santo il 26 di giugno di ogni anno) le avrebbero inflitto con atroce e violente demenza.

Anche Toland non risparmia elogi alla mente e al corpo della filosofia pagana esaltandone la bellezza, affascinato dalla sua tragica e dal suo destino infelice di vittima dell’intolleranza religiosa (lo stesso destino che la accomunerà successivamente alla Biblioteca di Alessandria all’interno della quale essa si era formata culturalmente e umanamente):

«Ora non posso fare altro in questa sede che raccontare, e con piacere – e ci sarà chi mi criticherà per questo – del fiore della gioventù di tutta Europa, dell’Asia e dell’Africa, che pendeva dalle labbra di questa bellissima donna (e siamo sicuri che Ipazia fosse davvero bella), assaporando avidamente ogni parola che pronunciasse, e molti di loro tralucevano amore dagli occhi. […] Senza dubbio era impossibile non imparare da un’insegnante così; poiché uno dovrebbe essere sia stupido che insensibile per non essere toccato nel profondo da una mente incantevole adagiata in un corpo altrettanto incantevole»(2).

Il volto di Ipazia, dunque, campeggia nel ricordo di chi la conobbe e di chi ne ha conosciuto la vita e l’orribile morte attraverso i testi di elogio dei filosofi ancora rimasti pagani come Damascio, l’ ultimo scolarca dell’Accademia platonica di Atene o cristiani come Socrate Scolastico o il patriarca Fozio di Costantinopoli. Nella vicenda agghiacciante dell’assurdo massacro di Ipazia si consuma uno dei maggiori drammi della cultura occidentale: la nascita dell’intolleranza in seno a una religione che si diceva ecumenica e irenistica, l’invenzione dell’eresia come strumento di governo e di potere, l’opposizione al progresso della scienza quando non si mostra prona e succube del volere della teologia trionfante. Un dramma che ritornerà più volte (Giordano Bruno, Galilei, Servito sono soltanto i nomi più significativi di questa tragedia del libero pensiero) e che continua a rivelarsi come la cifra di come l’operato del potere religioso (accoppiato a quello secolare) si riveli la pietra tombale di ogni forma di rivendicazione della capacità umana di sapersene (e volersene) emancipare.

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NOTE

(1) J. TOLAND, Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero, trad. it. e cura di Federica Turriziani Colonna, Firenze, Clinamen, 20103, p. 15

(2) J. TOLAND, Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero cit. , p. 18.

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