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IL TERZO SGUARDO n.18: La nostalgia è pur sempre quella di un tempo. Antonio Tricomi, “La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea”

Creato il 10 novembre 2010 da Retroguardia

IL TERZO SGUARDO n.18: La nostalgia è pur sempre quella di un tempo. Antonio Tricomi, “La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea”La nostalgia è pur sempre quella di un tempo. Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea, Macerata, Quodlibet, 2010

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di Giuseppe Panella*


La compatta e sostanziosa raccolta di saggi che compone l’ultima fatica in ordine di apparizione di Antonio Tricomi(1) non è soltanto un tentativo di regesto delle ultime tendenze e delle ultime novità nel campo delle “patrie lettere” (per usare un’espressione cara a Cesare Cases). Non è soltanto una raccolta di recensioni o di discussioni su romanzi o testi poetici più o meno riusciti in un periodo piuttosto lungo anche se tutto sommato poco esaltante o estremamente convincente della storia letteraria italiana (dagli anni Sessanta fino all’oggi, per intenderci). Nelle pagine del libro di Tricomi (che sono ben 543 più l’indice dei nomi e quello dei saggi raccolti nel volume!) emerge non solo un disegno storico della cultura italiana di quegli anni (la politica, la società, l’arte, il cinema, la televisione e non solo la narrativa o la saggistica letteraria) quanto una proposta socio-politico-culturale dallo spessore etico non indifferente.

Il saggio vuole essere, infatti, non solo una riflessione sulla letteratura e le sue generazioni passate o future quanto un’analisi a tutto tondo della storia italiana del secondo Novecento con tutte le sue (poche) luci e le sue (molte) ombre. Inoltre dalle pagine di Tricomi si evince una fondamentalmente accettabile quanto preminentemente impossibile forma di nostalgia: quella per una società letteraria che non esiste più, per un sistema di valori di critica e di giudizio orientati in un senso o nell’altro (stile o scelta politica e morale poco importa), per un “mondo di ieri” in cui scrivere e dare giudizi critici sulla scrittura aveva ancora un senso. La fine della “centralità” della letteratura all’interno della società civile e della sua possibilità di operare all’interno di essa per orientarne progetti e prospettive, la fine dell’”impegno” come dimensione privilegiata dell’attività degli scrittori e dei loro critici produce in Tricomi un sentimento di fortissima nostalgia, una sorta di volontà di epicedio per una dimensione sociale della pratica teorico-culturale (come egli spesso la definisce sulla scia di una fortunata allitterazione filosofica dovuta a Louis Althusser) di un tempo ormai passato. Per questo motivo, letto alla luce di una (possibile) “nostalgia” per il tempo che è stato e che non è più possibile ormai che ritorni com’era (e neppure modificato o arricchito di contenuti altri ma pur sempre significativi e utilizzabili al fine della trasformazione morale di un paese come l’Italia che da sempre vi aspira invano), il volume di Tricomi acquista un significato (straziato nei toni ma poderoso nelle sue prospettive) che altrimenti non avrebbe potuto avere se si fosse limitato ad essere soltanto una bella raccolta di saggi di buona letteratura. Dietro le pagine critiche e analitiche di Tricomi si nasconde un moralista e un critico della cultura nel senso più alto del termine. La sua dimensione più significativa è, appunto, proprio questa – dissimile nelle prospettive da un Arbasino o da un Testori ma certamente animato da una rabbia e da una forza espressiva che spesso a questi ultimi due autori di testi di pur ben calibrata indignazione civile talvolta è mancata soffocata nel primo dal gusto per il gioco letterario e per la citazione comprensibile solo per gli iniziati ad esso e nel secondo da una troppo prepotente vessazione ideologico-mistica. Tricomi vorrebbe che la critica letteraria fosse ancora legata a quella dimensione sistematica che le permetteva di essere una parte consistente del più ampio momento della critica sociale ai fondamenti della cultura dominante, vorrebbe, in buona sostanza, che la lettura e l’analisi di romanzi, poesie, film e spettacoli televisivi rientrasse in un progetto di costruzione dell’egemonia generale sulla società come Gramsci aveva teorizzato nei Quaderni del carcere e tanti suoi epigoni tra grandi e piccini (da Pasolini a Salinari, da Vittorini a Fortini ad Alicata e a Della Volpe o all’ancora attivo Gianni Scalia – solo per fare i primi nomi che mi vengono alla mente, anche se certo tanti altri potrebbero emergere dalla memoria storica di quel tempo). Non è un caso, allora, che il libro inizi con un film sulla stagione terroristica degli “anni di piombo” (Buongiorno, notte di Marco Bellocchio del 2003) e si chiuda con un altro film (Il Divo di Paolo Sorrentino del 2008) dedicato alla storia del partito politico cui Aldo Moro era appartenuto e di cui Giulio Andreotti, simbolo della storia italiana del dopoguerra, è stato grande parte dirigente.

Il discorso sulle Brigate Rosse e del valore simbolico della loro utilizzazione culturale (2) così come della loro rievocazione letteraria è centrale nella ricostruzione generazionale di Tricomi. La ricostruzione psico-sociologica di un personaggio ancora oggi controverso come Valerio Morucci, uno dei protagonisti del sequestro Moro, allora nutritosi quasi esclusivamente di spaghetti western e di “poliziotteschi” alla Maurizio Merli (quasi come accadeva nello stesso periodo al ben più talentuoso Quentin Tarantino)   lo porta quasi spontaneamente a riflettere:

 

«L’immaginario, per sommi capi appena ricostruito, di un brigatista quale Morucci è una delle tante spie di un altro parricidio consumato da quelle generazioni di utopisti e guerriglieri fin qui descritte: essi rifiutano in blocco l’organizzazione dei saperi, la cultura, le espressioni artistiche proprie della civiltà dei padri. A partire dal ’68, accanto a quella dei soggetti politici istituzionali e del politico in sé così come la modernità l’aveva definito, l’autorità che più violentemente è messa in questione è ad esempio quella dell’intellettuale tradizionalmente inteso. Non importa quali posizioni prenda e da che parte stia, se dia dimostrazione d’impegno civile o invece difenda le ragioni del padrone: egli è sempre giudicato espressione e servo del Potere perché il suo privilegio, antica eredità umanistica, svela la sopravvivenza di una mentalità e una società classiste, che fanno del sapere e della sua organizzazione strumenti di dominio dei pochi sui molti» (3).

 

Allo stesso modo, analizzando il ruolo della DC nella storia non solo politico-istituzionale del Paese Italia, Tricomi si sofferma a lungo su Todo modo, un film di Elio Petri del 1976, straordinario eppure ostinato nei suoi errori (e che non piacque per niente a Leonardo Sciascia, il cui romanzo era stato adattato per lo schermo dal regista romano in maniera palesemente infedele). Specchio dell’epoca in cui fu girato, eppure lacerato espressionisticamente dalla volontà di colpire con immagini forti e spesso allucinatorie (come le statue della scenografia di Mario Ceroli che ostenta), il film fu attaccato, in realtà, proprio per quello che mostrava: il “corpo di Stato” di Aldo Moro morto ed esibito come simbolo della fine di un Partito che si era completamente incitato nei gangli vitali della nazione e del suo governo. Alla fine della sua ricostruzione, Tricomi, ritornando all’Italia dell’altro giorni e al cinema civile che si prova a descriverne e giudicarne i paesaggi, i passaggi e la morte civile, si sofferma sulle differenze tra quell’ormai lontano film di Petri e quello, postmoderno e concitato, frenetico eppure immobile nella descrizione delle situazioni politico-morali italiane di sempre, realizzato, invece, da Sorrentino:

 

«Un passo indietro. Se il protagonista di Todo modo appare un individuo e un politico disdicevole, mentre l’Andreotti di Sorrentino a tratti può sembrare un uomo di sicura intelligenza e uno statista di livello, è per una ragione anzitutto. Petri considerava la classe dirigente cui Moro apparteneva e il Paese quale la DC aveva costruito e guidato nel primo trentennio repubblicano, rispettivamente, il peggior ceto politico nazionale e la più tetra Italia immaginabili, o comunque che la storia avesse fin lì visto. Una simile opinione lo spingeva a rappresentare il Presidente e i suoi colleghi di partito come caricaturali, e tuttavia proprio per questo irredimibili, incarnazioni del male assoluto, e a farlo senza mai provare a tenere il proprio sdegno civile, ma al contrario lasciandosene guidare nella speranza che esso, attraverso la pellicola, potesse suscitare o accrescere quello degli spettatori. Nel Divo, Andreotti. E il Paese di cui egli fu a lungo tra i timonieri, non sono fatti oggetto da parte del regista, e non provocano nel pubblico reazioni, di altrettanto odio perché Sorrentino lascia intendere di giudicare persino peggiori di quelle del passato l’Italia contemporanea e l’odierna classe dirigente. A prevalere, nel film, sono quindi il tono di sconcerto, più che di collera, l’atteggiamento di disincanto, più che di frustrazione, la peculiare rassegnazione venata di sarcasmo» (4).

 

Tra queste due ponderose citazioni, c’è, in realtà, tutta la letteratura italiana del Novecento. Soprattutto c’è Pasolini e il suo lascito, pesante come un macigno, anche per chi per Pasolini avrebbe potuto nutrire un sentimento di disinteresse, se non di disprezzo. Eppure è ancora a lui (così come a Italo Calvino con il suo epocale Se una notte d’inverno un viaggiatore – libro del 1979 che, secondo Tricomi, apre la strada al postmoderno letterario in Italia così come lo fa Il nome della rosa di Umberto Eco uscito, non a caso, nel 1980)) che bisogna rifarsi non tanto per contrapporli (così come ha fatto Carla Benedetti in un suo libro, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, fortunato quanto tuttavia non certo conclusivo) e porli “l’un contro l’altro armati” quanto per verificare il destino, farsesco e tragico, comicamente proteso verso la disperazione dell’impotenza, di una dimensione della scrittura che da allora è ineluttabilmente cambiata (e non certo in meglio). A Pasolini (sul quale Tricomi aveva già scritto due altri libri di cui uno di stretta sintesi, Pasolini: gesto e maniera, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2005) sono destinate pagine importanti e così pure ai suoi “discepoli” più o meno attenti e riluttanti. Per Walter Siti e il suo ultimo Troppi paradisi (Torino, Einaudi, 2008) è, infatti, squadernato un lungo saggio che ne mette in valore progettazione ideologica e sondaggio sociologico. L’analisi della crisi dell’ Homo occidentalis e del consumismo a-critico che ne fa strumento docile e insindacabile del grande Capitale ormai globalizzato viene ripercorsa con sicurezza e spietatezza da Tricomi che ha, oltretutto, il pregio di riallacciarsi alle analisi (ormai dimenticato e ormai considerate vagamente retro) di Herbert Marcuse, autore di un testo fondamentale della cultura novecentesca e cioè di L’uomo a una dimensione. Il mondo della televisione, del paradiso che promette e dell’esibizione della “magnifica merce” che lo assorbe sono al centro del libro di Siti e vengono esplorati con ampiezza da Tricomi nelle pagine dedicate a questo romanzo-saggio considerato fondamentale e largamente riuscito dal suo analizzatore. Allo stesso modo, lo studioso sembra attirato e affascinato dall’opera in versi e in prosa di Nanni Balestrini, considerato uno degli intellettuali “di movimento” più coerenti e più legato alle logiche di contestazione politica vigenti in Italia dalla fine degli Anni Sessanta in poi. E se pure apprezza giustamente la potenza graffiante e sarcasticamente espressionistica di La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi, non considera riuscite le prove narrative sul e intorno al Risorgimento dello scrittore grossetano perché intrinsecamente slegate o inerti rispetto alla polemica sul presente che, invece, caratterizzava la scrittura e costituiva il pregio del suo romanzo maggiore.

E se il ruolo della critica è salvaguardato da due testi dedicati a Roland Barthes e Alfonso Berardinelli, quello che più evidentemente interessa a Tricomi è la funzione conoscitiva del romanzo, la sua capacità di suscitare quel dibattito anche feroce e quella polemica soprattutto feconda capace di aiutare la rinascita di una coscienza civile che ormai ha del tutto cessato di esistere nell’ambito delle vicende letterarie e sociali del Belpaese. Per questo motivo, Paolo Volponi gli sembra ancora oggi un autore di rilevante importanza per aver collaborato con la sua opera a costruire un orizzonte letterario stretto tra assoluto sperimentalismo linguistico (Corporale del 1974) e analisi sociologica che si fa narrazione e proposta interpretativa del presente (Il sipario ducale del 1975 o Le mosche del capitale del 1989).

Per motivi analoghi, Roberto Saviano con il suo Gomorra del 2006 risulta vicino alla sua proposta di letteratura civile che non rinunci, tuttavia, alla sua funzione di innovazione linguistica, soprattutto oggi quando l’autore napoletano sembra subire gli attacchi più pesanti proprio da parte di chi dovrebbe essergli alleato nella lotta contro il Potere, prepotente e durissimo, del Sistema camorristico vigente nelle terre del Meridione forte dei suoi addentellati con una classe politica, invece, corrotta e incapace di liberarsi del proprio modo di governare arretrato e inefficace. Per questo, inoltre, privilegia e indugia a lungo sull’opera diaristica di Rino Genovese (Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell’esilio mentale, Reggio Emilia, Diabasis, 2008) perché trova in essa quegli elementi di critica teorica al destino dell’Italia e dell’Occidente tutto (la sindrome dell’”ibridazione” tra arcaicità e postmodernità) che gli sono più congeniali. Ma l’autore che gli risulta più vicino è l’educatore-narratore-saggista Eraldo Affinati alla cui produzione di scrittore eticamente coerente con la propria vocazione di pedagogo dedica pagine di autentica empatia e vicinanza umana. Non a caso proprio ad Affinati il libro di Tricomi è dedicato e con questa dedica conferma la propria vocazione di studioso il cui fine ultimo non è la ricerca in sé o la costruzione di architetture teoriche raffinate quanto la sua possibile funzione di “riforma morale e intellettuale” (Gramsci) che vorrebbe aiutare a realizzare utilizzando al meglio l’”arma propria” della critica della cultura e della sintesi socio-politica in campo letterario.

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NOTE

 

(1) Che Tricomi, nato nel 1975, appartenga a una generazione successiva alla mia (se non di più) l’ho capito con chiarezza solo guardando le sue (peraltro parche ed essenziali) note bibliografiche a piè di pagine: tranne le poche eccezioni relative a testi usciti dopo il 2000, tutte le citazioni di Tricomi vengono da ristampe o da edizioni “ufficiali” di opere letterarie (da quelle consegnate al mastodontico congegno dei “Meridiani” dedicati a Pier Paolo Pasolini e coordinati da Walter Siti per Mondadori all’Antimeridiano voluto dalla figlia Luciana per Luciano Bianciardi alle ristampe DeriveApprodi di alcuni testi poetici e romanzeschi di Balestrini) che, invece, io posseggo in prima edizione. Tutto questo non toglie assolutamente nulla all’esegesi di Tricomi e potrebbe sembrare soltanto una notazione marginale, da puro bibliofilo, ma a me ha dato il senso fisico della fine di un’epoca e del tempo che passa…

 

(2) Solo per fare un esempio, è stato emblematico l’uso del termine nelle sub-culture ribellistiche occidentali, in specie nell’Inghilterra degli ultimi Settanta e dei primi Ottanta (penso al film Rude Boy del 1980, regia di Jack Hazan e David Mingay, dove uno dei fan del complesso rock dei Clash indossa un giubbotto sul cui dorso è ricamata la scritta Brigade Rosse (sic!) e il rude boy protagonista del film gli chiede se è il nome della nuova pizzeria italiana di Brixton).

 

(3) A. TRICOMI, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea, Macerata, Quodlibet, 2010, p. 27.

 

(4) A. TRICOMI, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea cit. , pp. 496-497.

 

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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)


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