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di Giuseppe Panella*
Uno dei punti di forza della novità stilistica contenuta nell’Ulysses di James Joyce è sicuramente l’uso potente e spiazzante del “monologo interiore” come frutto più coerente della sua ricerca letteraria sullo stream of consciousness come momento di elaborazione e di costruzione dei personaggi della sua opera maggiore. L’impatto della “parola viva” sul corpo materiale della dimensione di quella scritta produce effetti di compiuta integrazione della corporeità all’interno delle possibilità espressive del dettato linguistico. E’ quindi proprio a partire dall’intuizione joyciana delle potenzialità del “monologo interiore” che il mutamento all’interno della letteratura del Moderno si esprime con l’elaborazione di stilemi originali e di nuove forme di rappresentazione delle soggettività che la costituiscono. Il “monologo interiore”, dunque, scandisce la nascita di una nuova soggettività capace di coniugare in modo esaustivo e sconvolgente parola e scrittura, testo orale e forma espressiva, voce dal profondo e sua estensione alla pagina scritta.
Dopo aver già pubblicato un saggio dedicato alla genesi del monologo interiore (Voci dall’abisso; Nuovi elementi sulla genesi del monologo interiore, Santo Spirito di Bari, Edipuglia, 1999), Laura Santoni ritorna sul tema con nuove riflessioni e nuove prospettive di analisi, riprendendo le proposte avanzate nel suo libro precedente e sviluppandole in maniera più decisa in una dimensione teorica che le permette di coniugare ricerca linguistica e scavo letterario nei temi trattati.
Come scrive Jacqueline Risset nella sua prefazione:
«Il punto di partenza è in un testo teorico del 1881, La Parole intérieure di Victor Egger, testo del tutto dimenticato e riscoperto da Laura Santone, che lo aveva già messo in relazione a Joyce in un precedente scritto del 1999 […] L’analisi viene ora estesa al contesto linguistico e storico, e mostra come la fine del secolo diciannovesimo apra nuovi orizzonti scientifici anche in aree meno note della ricerca linguistica e in particolare in quelle del suono, che giunge a incrinare l’egemonia del segno. Un’evidenza del tutto nuova viene data in particolare alla voce, considerata non più “matière volatile” ma ormai “materia viva”. In La Parole intérieure, dove per la prima volta, come nota Laura Santone, appare il termine “monologue intérieur” che più tardi verrà utilizzato per definire il monologo di Molly in Ulysses (nozione cui Edouard Dujardin consacrerà un saggio nel 1931), Victor Egger parlava di una “introspezione della sostanza vocale della parola”» (pp. 20-21).
Questo tema sarà poi ripreso e riconsiderato dallo studioso canadese Pierre Léon, autore di un rilevante Précis de phonostylistique. Parole et expressivité (Paris, Nathan, 1993), nell’introduzione che segue il testo della Risset:
«Attraverso tre isotopie – l’abisso, il frammento, la passione –, correlata all’isotopia dominante dell’anima, Laura Santone restituisce la parola interiore nella sua essenza sonora e nei suoi fondamenti arcaici e pulsionali, mettendo in evidenza come in “interiorizzazione” occorra in realtà intendere “sonorizzazione”, “stereofonia”. Eccoci allora – e l’autrice lo rimarca in conclusione, citando Fónagy –, “dans le coins sombres de l’atelier où se prépare le messaggi sonore”, in quella penombra che avvolge il linguaggio nel so stato paleontologico. Ed è in questa parte che […] Laura Santone ben ci illustra come nella “parola interiore” si disegni già la tecnica del “monologo interiore” quale Dujardin lo applicherà ai Lauriers sont coupés e che Joyce, sulla scia di tale esempio, assumerà dilatandola superbamente nella scrittura di Ulysses e nel “riverrun” di Finnegans Wake» (pp. 26-27).
Il punto di partenza del bel saggio della Santone, dunque, è l’idea che a fine Ottocento una nuova scienza del linguaggio sorga in Francia sostituendosi alla classificazione storica della teoria della lingua che aveva caratterizzato i Romantici tedeschi, primo fra tutti Wilhelm von Humboldt e poi sicuramente Franz Bopp con i suoi studi sulla natura delle lingue indoeuropee. Alla dimensione classificatoria dei linguisti di ispirazione darwiniana come Philippe Broca si sostituisce alla metà dell’Ottocento la phonétique come possibilità di sviluppare ulteriormente l’analisi della sostanza sonora del linguaggio (il termine “fonetica” è attribuibile a Michel Bréal e Frédéric Baudry che lo coniano nel 1865). Secondo la magistrale esposizione di Peter Szendy nel suo Écoute. Une histoire de nos oreilles (Paris, Éditions de Minuit, 2001), in questi anni l’attenzione alla dimensione dell’ascolto come forma espressiva del “sonoro” cresce in maniera esponenziale anche grazie ai meccanismi di riproduzione del sonoro come il fonografo brevettato da Thomas Alva Edison che vantava la possibilità di riprodurre fedelmente le voci dei cantanti lirici più acclamati come Enrico Caruso (l’eco di questo interesse è molto forte in Joyce tanto che Jacques Derrida si è sentito in dovere di intitolare Ulysse Gramophone. Deux mots pour Joyce il suo saggio sullo scrittore irlandese edito da Galilée di Parigi nel 1987).
«In questo rinnovato orizzonte, l’opera cerniera che darà impulso ad una ridefinizione del soggetto fornendo i presupposti epistemologici per la nascita di una linguistica moderna è Des Indes à la planète Mars di Théodore Flournoy, professore di psicologia all’Università di Ginevra. Pubblicato nel 1900 a Parigi presso la casa editrice Alcan, il volume è un vero e proprio studio monografico che offre una prima sistematizzazione teorica della glossolalia come lingua a base neologica, dotata di un proprio vocabolario e di una propria sintassi. Flournoy vi riporta il caso della medium Hélène Smith (1) che osserva per ben cinque anni e di cui annota rigorosamente tutti i flussi verbali che accompagnano i suoi incontri immaginari con marziani e abitanti dell’India antica. Dietro un francese apparentemente déguisé, al quale Flournoy pensava inizialmente di confrontarsi, prende corpo nel corso delle sedutev una logorrea che produce un vero e proprio parler en langues, un idioma altro, misterioso e onirico, continuamente reinventato in un rimpasto di ritmi e fonemi» (pp. 39-41).
La glossolalia descritta da Flournoy richiama quella descritta da Paolo di Tarso nella Lettera ai Corinzi dove la lingua degli uomini si fonde con quella degli angeli e, senza la giusta interpretazione ispirata da Dio, rischia di sembrare solo confusione e tintinnio, mescolanza di “flauto e cetra”. Proprio ispirandosi a un versetto della lettera paolina, Victor Egger sviluppa in La Parole intérieure, un saggio del 1881 un po’ troppo presto dimenticato (e ora giustamente evidenziato dalla Santone), una originale teoria del significante assai vicina alle ricostruzioni che contraddistingueranno le ipotesi linguistiche di de Saussure e alla rivisitazione psicoanalitica di Lacan, rivalutando il tema del linguaggio come introspezione:
«Innervata e stratificata in profondità, dove ogni rappresentazione dello spazio appare cancellata, la parola interiore afferma la durata pura, quella della successione dell’io, della successione degli stati di coscienza in cui si riflette la vita in divenire dell’anima, e dove la durata implica, secondo una concezione anticipata del tempo bergsoniano, totalità, fusione e organizzazione» (pp. 60-61).
Questo modello alternativo di linguaggio che legge nell’interiorità la possibilità di una comprensione più autentica della soggettività che la enuncia emergerà con maggiore nettezza dalle pagine del romanzo di Edouard Dujardin imperniata sul flusso di coscienza di Daniel Prince, Les lauriers sont coupés (che è del 1887 ed esce sulla Revue indépendante diretta dallo stesso autore e da Félix Fénéon). Nel suo saggio dedicato a Le monologue intérieure che viene pubblicato nel 1931, lo scrittore francese non solo si riallaccia all’opera joyciana che aveva utilizzato in maniera tanto efficace e sorprendente la sua scoperta letteraria ma tiene cono delle novità che vengono dall’opera di Freud e delle tematiche della psicoanalisi come nuova scienza dell’Io:
«Se Les lauriers sont coupés erano stati concepiti indipendentemente dalla lezione di Freud, quando l’inconscio continuava ad essere prefigurato dalla Volontà schopenhaueriana, nel momento in cui Dujardin vorrà spiegare ai suoi lettori la nascita del nuovo procedimento letterario utilizzato nel suo breve romanzo e poi mirabilmente ripreso nello Ulysses potrà invece far tesoro dei primi insegnamenti ufficiali della psicoanalisi. E, a ben guardare, nella definizione che egli abbozza del monologo interiore, quando dichiara di voler perseguire, con il suo uso sistematico, “un ritorno alle forme primitive del linguaggio”, per esprimere del soggetto “il suo pensiero più intimo, più vicino all’inconscio” ricreandone l’impressione “del suo primo manifestarsi”, risulta centrale quel movimento regressivo tipico dei pensieri onirici interrogato da Freud nell’esperienza analitica» (pp. 62-63).
Nella notte e nel sonno dell’inconscio visto come luogo secreto e liquido dove si ritrova la natura reale dei desideri e delle pulsioni della soggettività umana, la letteratura riesce ad entrare solo con lo strumento di una parola interiorizzata e liberata a sprazzi, attraverso indistinte e spesso contraddittorie epifanie di senso, frutto di una ricerca stilistica senza uguali – come si può verificare in un’importante dichiarazione da lui resa allo storico della letteratura inglese Louis Gilet (2):
«Nello Ulysses, per riprodurre il balbettio di una donna che si addormenta, avevo cercato di concludere con la parola meno forte che mi era possibile scoprire. Avevo trovato la parola yes, che si pronuncia appena, che significa il cedimento, l’abbandono, il rilassamento, la fine di ogni resistenza. Nel Work in Progress […] ho trovato la parola più sfuggente, la meno accentuata, la più debole della lingua inglese, una parola che non è nemmeno una parola, che suona appena tra le labbra, un soffio, un niente, l’articolo the» (p. 75).
Dalla ricerca sulle lingue “altre” alla produzione letteraria, dunque, il circolo si chiude e inizia, in questo modo, una nuova stagione della letteratura non solo europea.
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NOTE
(1) La donna , in realtà, si chiamava Catherine-Elise Müller e al caso si sarebbe interessato in seguito anche de Saussure.
(2) La dichiarazione di Joyce è stata riportata da Jacqueline Risset nel suo Joyce traduce Joyce in J. JOYCE, Poesie e Prose, a cura di F. Ruggirei, Milano, Mondadori, 1992, p. 723.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)