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di Giuseppe Panella*
Sono lontani i tempi in cui Dino Campana veniva considerato un poeta “minore” rispetto a Giosuè Carducci o Gabriele D’Annunzio e la sua opera veniva letta come l’espressione straordinaria di una mente malata o la produzione unica di un folle tanto bravo come scrittore quanto pazzo come uomo.
La critica letteraria del periodo successivo alla morte del poeta di Marradi ha sfatato questo pregiudizio di carattere psichiatrico (frutto di una testimonianza – sicuramente interessante e pregevole – ospitata dal medico Luigi Pariani nel suo Vita non romanzata di Dino Campana scrittore che è del 1938) o puramente aneddotico preferendo insistere piuttosto sulle qualità innovative formali del linguaggio campaniano. Il progetto di scrittura di Campana era stato del tutto ignorato dalla critica al momento in cui emerse con la realizzazione del grande poema orfico:
«Non sorprende, quindi, che il nuovo stile che inaugura non si conformi allo spirito del tempo e trovi scarsa considerazione. Solo a vent’anni di distanza, grazie agli influssi di critici come Carlo Bo (1911-2001), Gianfranco Contini (1912-1990) ed Emilio Cecchi (1884-1966), ma anche di poeti come Eugenio Montale (1896-1981), i Canti Orfici vengono riscoperti e fatti conoscere al pubblico. Le loro recensioni contribuiscono a far diventare la lirica di Campana, dopo la morte, una delle più significative e singolari del suo secolo. I critici letterari che abbiamo citato vedono in lui il vero esponente dell’avanguardia. La sua originalità poetica, ritengono, sta nell’uso di un nuovo linguaggio, che rivela la presenza di una grande quantità di neologismi. Il suo stile insolito prende forma, tra l’altro, anche grazie ai suoi numerosi viaggi in Europa e al di fuori dell’Europa, in paesi di cui impara le lingue e con le cui letterature spesso si confronta in profondità. Si offre, scrive a Cecchi, “per far passare un po’ di giovane sangue nelle vene di questa vecchia Italia”, per offrire rinnovamento. Le sue visioni hanno bisogno di uno spazio illimitato in cui proiettare la propria ricchezza linguistica e intellettuale: immagini di una città, di una torre, di un fiume, ma anche di paesaggi e persone incontrati nei propri viaggi. Campana chiama “sogni” queste visioni, dove i confini tra il reale e l’irreale sono fluidi: ai suoi sogni, nei loro elementi reali, si sovrappongono quelli onirici. Nei suoi “sogni” si sviluppa un piacere sensuale, si attua la trasfigurazione della visione posta al di là del reale e del suo compimento. I suoi sogni, evocati dal passato, rivissuti nel presente o proiettati nel futuro, rispecchiano sovente una forte eccitazione fisica, mentre le sue evocative visioni si confondono con il ricordo» (pp. 26-27).
Il libro di Monika Antes è, di conseguenza, un vivace quanto accurato tentativo di svelare i segreti della scrittura di Campana. Passando attraverso i Canti Orfici, infatti, l’autrice analizza e verifica i motivi letterari, i nodi stilistici e le prospettive umane che definiscono l’approccio di Campana a un nuovo modello di scrittura poetica libera dai cascami e dalle prevalenze della vecchia letteratura all’epoca ancora imperanti e consolidati in Italia, nonostante l’avvento della “rivoluzione futurista”.
Il libro viene analizzato nella sua storia un po’ sfortunata in sede di collocazione editoriale (il manoscritto titolato Il più lungo giorno fu smarrito da Soffici cui Campana l’aveva affidato e è stato ritrovato solo da pochi anni, nel 1973, anno della sua ristampa anastatica presso Vallecchi di Firenze), nel suo paratesto (la dedica a Wilhelm II di Germania e le citazioni che lo costellano tra cui quella più celebre si deve a una lettura anticipatoria di Walt Whitman), nella sua fortuna critica (vengono richiamati e riassunti molti testi di critica dovuti a studiosi stranieri di letteratura italiana – Luigi Bonaffini, Helene Kirchhoff, Caroline Mezey, Regina Bredenbach, Flavia Stara).
Lo stesso titolo dell’opera di Campana viene correttamente ricondotto all’orfismo dominante in Francia nell’ambito della cultura cubista (come testimonia una celebre riflessione di Guillaume Apollinaire su I poeti cubisti) e frutto di un omaggio ai Canti di Leopardi e alla pittura di Robert Delauney, sodale meno noto di Braque e di Kandinskij (a una sua mostra parigina del 1912 probabilmente fu presente proprio Campana come sempre in fuga da Marradi e dalla sua famiglia).
Ma il punto forte del libro della Andes è la ricostruzione e l’analisi punto per punto del testo dei Canti orfici a partire dal formidabile incipit di La Notte fino all’epilogo sontuoso del poema di Genova. Attraverso una scansione testo per testo, il libro campaniano viene de-costruito e de-crifato alla ricerca delle fonti, dei motivi, dei significati profondi e dell’utilizzazione della lingua da parte dello scrittore di Marradi. Di grande interesse il privilegiamento della lirica dedicata a La Chimera, una delle più celebrate (ma non molto analizzate) poesie che compongono i Notturni, la seconda parte dei Canti Orfici. In essa, la “suora della Gioconda” – come egli la definisce – diventa il simbolo della purezza della poesia e del mistero che circonda quest’ultima:
«La “suora de la Gioconda” scompare, a mano a mano, in lontananza; il poeta è di nuovo solo. Non gli resta che invocarla per vederla ancora apparire dinanzi a sé: “e ancora ti chiamo ti chiamo / Chimera”. Campana comincia la sua poesia manifestando un dubbio: non sa se abbia già incontrato questa figura femminile, e sotto quale forma. Fu in montagna? La vide come una sorta di sfinge, su una parete rocciosa? O furono le ombre di questa donna, allucinazione di una figura femminile, a nascere nei suoi sogni? Nella parte centrale della poesia, questa entità ancora indefinita diventa una persona concreta, che il poeta incontra con il suo io, entrando in un intimo dialogo con essa. La descrive nella sua delicatezza, nella sua pallida bellezza, nella sua infinita castità e gioventù, vedendo in essa la sorella minore della Gioconda (“regina adolescente”, v. 9, e “fanciulla esangue”, v. 12), che lo inizia ai misteri delle muse. E’ così fragile che la deve proteggere, affinché nulla le accada. Campana lo fa in modo empatico e suggestivo alla prima persona (“Io per il tuo dolce mistero”, v. 19, e “Io per il tuo divenir taciturno”, v. 20)» (pp. 65-66).
La Chimera, scaturita probabilmente e direttamente dalla lettura di una celebre raccolta di poesie di Gérard de Nerval, è il momento in cui si palesa come un atto vivente il mito dell’arte.
Attraverso il suo presagio, la poesia affronta e pervade il poeta, salvo poi abbandonarlo quando esso non riesce più a reggerne la forza che lo pervade e, contemporaneamente, ne intercetta ogni forza vitale. L’Arte è una Chimera vivente che appare a tratti, a macchia di leopardo, per poi perdersi nel vuoto della vita quotidiana e del non-senso di ciò che non può esserle simile.
Altrettanto interessante è la lettura che la Andes dà del lungo flusso poematico che chiude i Canti orfici, Genova, un momento di altissima liricità compressa e innovativamente rappresentata come una lunga e protratta esplosione linguistica di luce e colore:
«Nella quinta strofa del canto scompaiono le ombre della sera e il rosso dei fari. Nel porto scende il silenzio. Diviene “paesaggio mitico di navi”. Il mare e il cielo diventano aurei; sulla banchina si odono “gridi di felicità”. Anche per i vecchi quartieri si stende un “velario d’oro di felicità”. La città “si accende” e “intesse un sudario d’oblio per gli uomini stanchi”. Questa parte racchiude il vero significato del canto: a partire dall’ambiguità della sera e dalle ombre più oscure l’uomo entra in un processo doloroso e purificatore che lo conduce verso la luce di un nuovo giorno. L’approdo dei viaggiatori alla “grande luce mediterranea” coincide con il ritorno del poeta notturno del primo canto, La notte. La sua vita, illuminata di felicità, è oltre lo spazio e il tempo, dopo che il viaggio gli aveva fatto attraversare la notte oscura, nella quale ha sofferto ogni tappa e percorso la via per aspera ad astra che inizia con La notte e i Notturni e termina con il luminoso sole di Genova e la felicità assoluta. La città, per un breve istante, è divenuta un mito che “si accende”. Ma anche “il giorno più chiaro”, in questa città, è soggetto alle leggi della caducità. La luce radiosa torna lentamente a scomparire, e sulla città scende una certa “stanchezza”. Gli esseri umani diventano ombre, vagandovi “terribili e grotteschi come i ciechi”. Poi “il porto s’addorme”, e la nube – nella prima strofa “bianca come un sogno” – si alza nera dalle ciminiere. Il sorriso della città e i bianchi echi sono spariti; “culla la tristezza inconscia delle cose e il vasto porto oscilla”, e “si sente la nube che si forma dal vomito silente”» (pp. 132-133).
Il libro di Monika Antes propone, allora, nella sua lunga sequenza di commenti e di ricostruzioni analitiche un approccio a Campana scevro da volontà erudita o filologica (una caratteristica questa della critica italiana su Campana forse come reazione al pressapochismo dei suoi primi recensori e lettori) ma capace di ricostruirne il ritmo e lo stile nei suoi inconfondibili e originalissimi caratteri.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)
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VIDEORECENSIONE n.4: Monika Antes, “Fra sogno e realtà. La vita e l’opera di Dino Campana. I canti orfici”