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di Giuseppe Panella*
Il termine Crescita zero non indica più, come in passato, la decisione di non costruire più oltre la cubatura già presente in situazioni urbanisticamente già compresse e affollate o il saldo ugualitario tra natalità e mortalità in demografia. Nella dimensione presente del linguaggio economico, indica drammaticamente la stagnazione presente a livello di sviluppo sociale e di produzione di ricchezza e, soprattutto, è l’indice di una situazione che va sempre più deteriorandosi perché alla mancanza di investimenti continuativi non può che conseguire l’annullamento delle prospettive relative alla creazione di nuovi posti di lavoro. Senza crescita economica stabile, niente ricchezza sociale e senza di questa l’unica possibilità presente che rimane a chi ne è soggetto è la disoccupazione a tempo indeterminato e la morte civile che necessariamente ne consegue.
Si tratta di un tema drammatico e scandito da un peggioramento progressivo di cui non si può che essere spaventati per il precipitare delle conseguenze che esso comporta.
Ma la questione della mancanza di crescita dell’area meridionale non è soltanto un problema di economia politica né un dato astratto all’interno di forme sempre più globalizzate di produzione e redistribuzione del reddito.
Si tratta – sostiene autorevolmente Paolo Saggese nel suo pamphlet – di un problema generale, dell’emarginazione sempre più marcata di ciò che caratterizza da sempre la dimensione specifica della cultura meridionale e della mancanza di una classe politica adeguata che possa guidarne e propiziarne il necessario cambiamento.
Uno dei simboli più eclatanti dell’emarginazione del Sud è la sua progressiva espulsione dalle mappe scolastiche della poesia novecentesca: ignorare poeti di larga e riconosciuta fama diffusa come Salvatore Quasimodo o Bartolo Cattafi o Vittorio Bodini significa cancellare brutalmente una serie di espressioni tra le più originali della storia della scrittura poetica italiana nel Novecento (per ricordare il titolo di un noto profilo storico-critico di Fausto Curi, uno tra i saggisti accademici che sono bersaglio della giusta e riflessiva critica di Saggese che ne individua correttamente la dimensione anti-meridionalistica).
«La poesia del Sud è, dunque, poesia “diversa”, perché legata ad una terra “diversa”. Conferma la nostra idea della “geopoetica”, secondo la quale stretto è il legame tra i luoghi e la storia, persino tra i “colori” dei luoghi e la poesia di chi ha vissuto “quella” terra particolare, perché ogni poesia ha una poetica, come ogni poeta ha una sua “terra” o un luogo, che la fa nascere. Insomma, la “geopolitica” del sud deriva dalla storia stessa di questa terra, da quelle piaghe “naturali” ricorrenti, di cui parla Giustino Fortunato […] In tal modo, i nostri poeti vogliono andare oltre la speranza, oltre ogni sogno partendo dalla realtà» (p. 34).
Se la poesia del Sud è segno di una “diversità” che nasce da problemi antichi e da angosce contemporanee è anche vero che il suo progetto generale non è soltanto quello (passatista) del recupero di antiche tradizioni arcadiche quanto quello di una dimensione più profonda, quasi carsica, del modo di intendere la pratica poetica. Ne è espressione la “meridianità” nei suoi accenti più puri e più lancinanti, la sua volontà di collegarsi in maniera diretta con una tradizione che è antica quanto il mondo e che si basa sulla capacità di mettere in evidenza i valori di una civiltà che è non basata soltanto sulla produzione serrata di beni di consumo o sull’attivismo fine a se stesso quanto sulla capacità di ascolto del ritmo della Natura e delle relazioni che si possono costruire con essa. Ma il pamphlet di Saggese non è soltanto un appello al riconoscimento del valore della poesia del Sud (che, in realtà, non si sarebbe in nessun modo mai dovuta o potuta rimettere in discussione in termini di contrapposizione così radicale come è avvenuto negli ultimi due decenni).
E’ anche un esame amaro e spassionato del destino dei giovani meridionali nell’attuale crisi economica strutturale di sistema e una ricostruzione con molte ombre e qualche luce (quella di cui riverbera la figura rigorosamente “desanctisiana” di Gerardo Bianco, ad esempio) dell’élite politica di cui il Sud risulta da sempre gravata come da una sorta di maledizione avita. Un quarto testo dedicato a Intellettuali e cultura è, invece, di omaggio a figure importanti di operatori culturali irpini come Antonio La Penna, Franco Arminio e Giuseppe Iuliano che, nelle loro pur diverse attività di scrittura e di vita, sono simbolo vivente di una concezione operosa e irriducibile di volontà di confrontarsi con il mondo e che prova a darne una visione piena e non più appiattita o monodimensionale come usualmente accade non solo al meridione.
Si tratta di ritornare ad analizzare uomini e aspetti del Sud di oggi nel bene e nel male, nei suoi aspetti positivi quanto nei suoi momenti meno accettabili – si potrebbe dire con un’espressione finora troppe volte utilizzata se non fosse necessario, ancora una volta, cercare di salvare il meridione d’Italia da una damnatio memoriae che è fatta di oblio e di morte civile, di mancanza di prospettive e di “sogni nel cassetto”, di accidia e di disimpegno troppo precoci.
Ma l’importanza di questa riflessione di Saggese è legata all’abbandono di una tradizione (questa sì vetusta, questa sì passatista) che voleva la cultura meridionale legata a filo doppio alla dimensione della lamentazione continua e del fatalismo, della mancanza di iniziativa umana e produttiva, dell’abbandono fideistico alla volontà autoritaria di uno Stato accentratore e a una politica tutta intesa al “particulare”, al rapporto clientelaristico e di scambio, incapace di sollevarsi a una prospettiva più generale del bene comune.
Sulla scia delle analisi critiche eseguite da Manlio Rossi Doria e dalla sua successiva “scuola di Portici”, Saggese si interroga, preoccupato e perplesso, su quanto è stato fatto e, soprattutto, su quello che non si fece dopo la catastrofe irpina del terremoto del 1980:
«A questo punto nel concludere, preferirei più che chiosare questa indagine porre delle domande. Innanzi tutto, cosa è stato fatto di concreto, soprattutto tra il 1980 e il 1995, a favore dell’agricoltura delle zone interne? Solo di recente – forse troppo tardi ? – l’agricoltura innovativa è stata percepita come strumento di sviluppo, di occupazione qualificata, di benessere. D’altra parte, nelle aree industriali realizzate nel dopo terremoto si sono insediate tutte attività produttive floride, solide, legate alle risorse materiali del territorio, oppure, accanto a queste, anche molte attività produttive poco solide, interessate più ai contributi dello Stato che a realizzare aziende durature ed efficienti? Forse i nuclei industriali poi realizzati erano troppi e rispondevano più a interessi localistici e clientelari che a funzionalità di concreto sviluppo? » (p. 69).
Che cosa non sta accadendo al Sud dell’Italia è sotto gli occhi di tutto (decenni di indagini e di analisi da parte di illustri meridionalisti, dall’ancora contemporaneo Guido Dorso al già citato Manlio Rossi Doria, da Giustino Fortunato a Francesco Compagna, lo hanno messo in valore con spietata e comprensiva chiarezza analitica ed espositiva).
Che cosa, invece, andrebbe fatto è sempre più materia di contesa quotidiana. Lasciare il Meridione a se stesso sembra la soluzione più spesso adottata (dal tempo dell’Unità d’Italia in poi), ma questo non è ormai più possibile senza affrettarne una catastrofe senza ritorno che lo condannerebbe a una deriva senza scampo rispetto alle altre situazioni politiche ed economiche presenti e operanti nel bacino del Mediterraneo. Il libro di Saggese offre un contributo significativo all’analisi del problema – senza nascondersi le ombre e le difficoltà, non si trincera dietro un’impossibilità antica e sempre emergente che sembra contrassegnare l’attività anche degli “uomini di (maggiore) buona volontà”. Il suo “pessimismo della ragione” è fondato ma è solo il punto di partenza per un’azione futura (quella delle “Sentinelle dell’Irpinia” coordinate da Michele Ciasullo, ad esempio, di cui Saggese rende conto in maniera esaustiva e positiva) che, se non abbandonata a se stessa come troppe volte è accaduto, potrebbe condurre ad un riscatto che già De Sanctis, nel suo Un viaggio elettorale del 1875, considerava l’unica via percorribile e accettabile per le terre in cui era nato e cresciuto umanamente e culturalmente.
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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)
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