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di Giuseppe Panella*
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Sulla figura di Michel de Certeau, gesuita studioso di psicoanalisi lacaniana, del linguaggio dei mistici e dei rapporti tra rappresentazione sociale della cultura religiosa, manca a tutt’oggi uno studio che ne inquadri le coordinate filosofiche più generali. Erudito apprezzato da Michel Foucault e teorico del linguaggio amato da Lacan, de Certeau, figura di indubbia poliedricità umana e sapienziale, ha spaziato come pochi tra linguistica, storia della cultura, poesia e cinema.
Questi dialoghi sulla glossolalia rappresentano un’incursione tutt’altro che occasionale del colto gesuita nel mondo della semantica linguistica. Nelle riflessioni superstiti dello storico francese, in un convegno tra happy few svoltesi a Roma nel 1977 in un serrato dialogo e confronto con Paolo Fabbri e William Samarin (dove, tuttavia, predominava il più intenso rigore dialettico di de Certeau) e restituite nel loro dettaglio dalla pazienza di Lucia Amara attraverso un meticoloso lavoro di archivio e di sbobinatura, il tema della glossolalia emerge con prepotenza in un insieme apparentemente caotico di annotazioni sparse:
«E poi c’è un altro aspetto, che non è esattamente lo stesso, ma credo sia ugualmente importante dal punto di vista del rapporto tra suono e senso, ed è il fatto che, alla fine, si verifica il miracolo di cui parlavate: è il rapporto e l’identità tra la lingua più privata, soggettiva e illeggibile, da una parte, e dall’altra la lingua universale, la lingua dell’assoluto, in sostanza quella che nella mistica o in una certa tradizione filosofica si è a lungo cercata designandola come lingua pre-babelica o lingua di Dio o lingua degli angeli. Qui abbiamo questo rapporto, tra ciò che è massimamente privato e intimo e, insieme, ciò che è assoluto e universale attraverso la mediazione che questa lingua opera in una comunità. Giustamente mi sembra che dietro, non visibile, ci sia una continua tensione di senso. In altre parole, mi chiedo: quello che di meno visibile io percepisco è anche ciò che va a istituire il fatto comunicativo, la comunicazione nella sua essenza fondamentale? » (p. 83).
Come “l’anatomia dell’uomo spiega l’anatomia della scimmia” (Marx), così la glossolalia, il parlare per lingue evocato da San Paolo nella prima Lettera ai Corinzi, 13-14, può servire a comprendere il senso della comunicazione umana, a dare significato a ciò che è comprensibile ma non compiutamente comunicabile. Nella glossolalia, la verità delle parole è nascosta sotto le parole stesse come avviene nella ricerca sugli anagrammi di Ferdinand de Saussure, come potenzialità cioè in atto nel linguaggio che rimanda così ad un altro linguaggio. Sotto le parole improbabili del glossolalico si nasconde forse la verità sul linguaggio “vero”, quello edenico, in cui parole e cose coincidono e con il quale creare la realtà semplicemente dicendola.
Per San Paolo, chi parla per lingue è visitato dallo Spirito Santo e parla direttamente con Dio ma non è un profeta capace di edificare e di salvare gli uomini cui si rivolge. Ma chi parla per lingue è anche capace di esprimersi in una lingua completamente inventata, anzi di crearne una tutta propria.
E’ il caso di Hélène Smith (Catherine-Élise Muller), la medium studiata e analizzata da Théodore Flournoy dell’Università di Ginevra, che parlava una lingua “marziana” simile al sanscrito e, per questo, osservata anche da de Saussure1. La signorina Smith si rivolgeva a Flournoy in una lingua che la donna sosteneva derivare direttamente da Marte; successivamente la mutò in una lingua che de Saussure definì “sanscritoide” e che assomigliava a un linguaggio indiano. Ma i suoni che essa emetteva erano solo apparentemente indù – costituivano un linguaggio privato, una lingua “inventata” che andava al cuore della comunicazione aggirandola.
Ma la glossolalia non è soltanto il linguaggio del pianeta Marte – è anche espressione di un’esigenza poetica. Il poema Glossolalia. Poema sul suono di Andrej Belyi mostra in atto il farsi del linguaggio attraverso l’intersecarsi di parole che non hanno senso nel momento in cui lottano con se stesse per acquistarlo contendendolo all’abisso del non senso e dell’insignificanza.
Ma anche Artaud, nei testi misterici del periodo del ricovero nella casa di cura di Rodez, usa un linguaggio mistico fatto di assonanze consonantiche che sembrano voler mettere direttamente in contatto con un al di là che gli darà significato oltre che senso.
Nella glossolalia – sembra sostenere de Certeau – la parola si denuda e giunge al limite dell’insignificanza, si fa lacrima rerum e piange della sua impossibilità.
Il pensatore gesuita considera, allora, la necessità di farsi corpo del linguaggio e attraversare il corpo con il suo desiderio di dire:
«Un secondo aspetto, in questa enunciazione, è certamente il suo rapporto con il corpo, poiché i luogo del dire è il corpo, il “qui” e l’”ora” sono il mio corpo. E senza dubbio, anche nell’enunciazione vi è qualcosa di particolare per ciò che concerne la glossolalia: è il suo carattere performativo e ingiuntivo; insomma si definisce “performativo”quel genere di enunciato, isolato da Austin2, che dice quello che fa. Ciò significa che il dire è nello stesso tempo un fare. Si scambia, si fa, si produce. Ora ogni discorso religioso si contraddistingue fondamentalmente come performativo. C’è il fatto che in una religione non è mai stato essenziale sapere “se è vero” o “se è falso”. Il problema era di sapere “se salva” o “non salva” (se dà o no la salvezza); e quando si dice “Gesù” o “credo in te”, si è salvati o non si è salvati. Altrimenti detto: è performativo o non lo è. L’enunciazione glossolalica si concentra dunque su questo problema dell’efficacia e si lega alla felicità del corpo, alla comunicazione data, all’euforia comunitaria, alla guarigione, al miracolo ecc….» (p. 57).
La glossolalia, allora, ben lungi dall’essere un problema marginale della comunicazione linguistica e della semantica dei corpi, pone questioni di frontiera sulla verità del linguaggio e sulla sua natura di legame relazionale tra gli uomini.
NOTE
1 Cfr. Théodore Flournoy, Dalle Indie al pianeta Marte. Il caso di Hélène Smith: dallo spiritismo alla nascita della psicoanalisi, a cura di Mario Trevi, trad. it. di Emanuele Trevi, Milano, Feltrinelli, 1985.
2 Cfr. John L. Austin, Come fare cose con parole, trad. it. di Carlo Penco e Marina Sbisà, Genova-Milano, Marietti, 1987.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)