Profondo nero
Il n. 1 di Kriminal
Nella prima parte della sua vita da artista, il nostro Magnus-Roberto Raviola era divenuto famoso per il suo talento nel saper sciogliere le sfumature che dettano le profondità dimensionali in due sole tonalità: bianco e nero. Anzi, per meglio dire, era divenuto maestro nel convertire la raffigurazione al dominio di un nero, prepotente e profondo, ove i barlumi di chiarità rimasti in sottofondo potevano fornire solo un sommesso commento. Indiscusso protagonista rimaneva un nero tenebroso, una pece senza sfumature né esitazioni, incontrastato dominatore che sottolineava la cupezza d’animo dei personaggi e spesso l’enfasi nell’esibizione di una sessualità ancora torbida al sentire comune, che non poteva andare disgiunta dall’idea di male e peccato.
In verità fu la necessità di non perdersi in complicati tratteggi chiaroscurali che aveva indotto il giovane fumettista bolognese ad annullare le tessiture in bui profondi, realizzando così forme e atmosfere funzionali ai fumetti ideati da Max Bunker (Luciano Secchi), che solleticava così l’immaginario proibito di una pruriginosa e repressa italietta. Li ricordate? Erano i famosi neri: Kriminal, Satanik; poi vennero la sexy astronauta Gesebel e l’agente segreto Dennis Cobb.
Il nero, dominante nella tavola, consentiva all’artista di formare le scene con la velocità richiesta da una produzione poco sensibile a velleità artistiche. Grazie all’uso sapiente di bui privi di sfumature, Magnus riuscì a realizzare, contemperando esigenze produttive e piacevolezze estetiche, atmosfere fortemente evocative e non usuali che suggestionarono grandemente i lettori del tempo.
Profondo bianco
Qualche anno dopo un altro artista del fumetto, che sarà poi universalmente conosciuto come il maestro dell’eros, Milo Manara, escogita una soluzione opposta e parallela, capace di mettere d’accordo l’esigenza del bello con quella dell’utile.
Impegnato nei primi fumetti erotici stampati in Italia
È improbabile che questa linea essenziale, ravvisabile sin dall’inizio nelle opere di Manara, nasca dall’adesione a una scuola. È plausibile, viceversa, che la caratteristica di dominanza del bianco sul nero (che sarà distintiva del tratto dell’artista negli anni) sia determinata da esigenze commerciali legate alla velocità con cui le tavole dovevano essere prodotte: l’uso della tessitura comporta un lavoro supplementare che allunga i tempi di completamento del lavoro. Servirsi solo delle linee, tessendo le ombreggiature solo in casi indispensabili, poteva essere una soluzione per accelerare i tempi della lavorazione. Una mano dotata come quella di Manara poteva permettersi questo espediente senza dare la sensazione di un lavoro approssimativo, anzi producendo effetti piuttosto eleganti.
Quel che Manara realizza con un’unica linea, Magnus lo crea attraverso neri profondi e tenebrosi: due effetti diversi e contrapposti che partono da una comune esigenza di produzione. Quel che è importante segnalare è che le due strade diverse (ma complementari) da cui i due artisti partono, li porteranno, entrambi, a convergere verso uno stile liberty consapevole ed assolutamente efficace.
> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="389" width="298" alt="Il testamento di Magnus: un’occasione per ripercorrere le tensioni liberty nel fumetto >> LoSpazioBianco" class="alignright wp-image-52312" />L’opera più consapevolmente liberty di Manara è sicuramente Il gioco (Le déclic, 1983, Francia), la quale ci restituisce un disegno fatto di linee lunghe e senza fine, un tratto di volute e percorsi curviformi che dimensionano elegantemente corpi e figure. È una composizione elegante, essenziale e seducente che esalta gli effetti erotici della storia. Il segno che Manara adotta a partire da Il gioco assorbe le suggestioni più autentiche del Liberty, definito anche stile floreale perché caratterizzato da una linea lunga, sottile e flessuosa. La seduzione delle linee del Liberty, con le annesse allusioni erotiche che rimanevano ambigue e sottintese agli inizi del Novecento, trova una espressione nella figurazione, non più velata bensì esplicita, dell’autore.
La tavola conclusiva de Il gioco riproduce, in più vignette, l’immagine della protagonista, Claudia, che siede su di una poltrona rivestita di tessuto dalle linee astratte e labirintiche. Sullo sfondo, linee sottili e volutiformi, delineano un albero, arbusti e una colonna a cui si avviluppa un rampicante. Spicca la protagonista vestita di un abito nero su cui staccano bianche, come in negativo, le stesse forme che decorano la poltrona. Il nero abito della protagonista macchia, come un contrappunto, il bianco assoluto che la circonda, interrotto solo dalle linee sottili che definiscono le cose. L’effetto è un infinito rincorrersi di linee eleganti che danno poco spazio al vuoto e si racchiudono in loro stesse. Linee che formano figure di una sensualità celata ma pronta a prorompere inarrestabile e che infatti si risolve spudoratamente nelle ultime vignette della tavola.
Le 110 pillole
La vocazione liberty di Magnus appare compiutamente in in Le 110 pillole («Totem» (nuova serie), n.4 e ss., aprile 1985). Qui l’autore reinventa un Estremo Oriente soave e immaginario, in cui la forzata aulicità dei testi contrasta con la riproduzione esplicita di un mondo satollo che mira sfacciatamente all’appagamento dei sensi. L’apparato grafico, di supporto a un contesto narrativo, tutto sommato, gracile, presenta uno stile liberty palesemente esibito. Sottolineato, con chiarezza stilistica, che si rappresenta quasi come un manifesto artistico, nelle vignette didascaliche, intermezzi alla continuità dell’azione, dove il testo è accompagnato da un evocativo disegno: pochi tratti che delineano una compiuta suggestione liberty.
Nel quadro iniziale della quarta tavola «Totem» n.4, p. 23) la luce della luna annichilisce la tenebra e la stempera in un chiarore lattiginoso che invade la scena. La composizione è immobilizzata in un liberty estremamente esornativo, dove l’armonia delle forme prende il sopravvento sui volumi della figura umana che resta appiattita come una mera decorazione, funzionale solo alla grandiosità del contesto pittorico. Armonia e proporzione risultano essere gli obiettivi ultimi dell’artista. E anche quando i neri vincono la battaglia sulla luce, la forma risulta comunque funzionale alla decorazione, in un contesto sempre armonico e simmetrico. I movimenti delle figure appaiono lenti e studiati, colti in pose più lineari che plastiche. L’opera appare intessuta su un gigantesco arazzo; sublime ma priva di spontaneità diventa quasi affettata. Il disegno di Magnus, in Le 110 pillole, ricorda le arabescate carte da parati o le coperte ricamate in seta, in cui William Morris, teorico del liberty, traspose la sua creatività, al fine di estendere il bello alle cose comuni.
Il fatto che due dei maggiori disegnatori del fumetto italiano, partendo da presupposti ed esigenze simili, seppure con evidenze grafiche opposte, siano, entrambi, confluiti in un consapevole stile liberty non è solo un caso.
L’arte nuova
Il fatto è che lo stile liberty è indissolubilmente legato al fumetto, in quanto entrambi trovano il proprio significato culturale in un medesimo concetto: quello dell’arte restituita alla quotidianità, come negazione dell’intellettualismo e della visione del bello che resta richiuso in torri eburnee.
Nella seconda metà dell’Ottocento la concezione conformistica dell’arte andava vacillando e si trasformava grazie al contributo di numerosi ideologi-artisti. Il «peccato originale», perpetrato secoli addietro, aveva collocato l’artista in una posizione elitaria, molto spesso beneficiaria dei favori del potente di turno. Divenuto produttore di opere intellettuali, forgiatore del sublime, aveva rinnegato la sua natura primitiva, vicina a quella dell’artigiano, vincolato piuttosto a una produzione finalizzata all’utile e al quotidiano.
William Morris, carta da parati
Nell’Ottocento, a causa della Rivoluzione Industriale, artista e artigiano erano quanto mai distanti, anche perché, frattanto, l’artigiano era divenuto operaio, e relegato a una attività quanto mai alienante e ripetitiva, che nulla aveva a che fare con il concetto di produzione individuale e tanto meno di arte.
Fra i primi a ribellarsi a un’astrazione artistica che escludeva il popolo ci fu Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), londinese, figlio di un esule mazziniano, che fondò il movimento dei preraffalleiti, che voleva riportare l’arte alla «primitività» che riteneva fosse propria della pittura che aveva preceduto Raffaello.
Ma l’artista-pensatore che offrì la più solida base ideologica a un’arte che potesse essere nello stesso tempo realizzata e goduta dal popolo fu il già citato William Morris (1834-1896). Al pensiero di Morris si deve la nascita di quel diffuso e articolato movimento artistico che in Italia assume la denominazione di Liberty, in Francia Art Noveau, in Spagna Modernismo e nell’Europa Centrale Jugendstil.
La «nuova arte», sorge, grazie allo sforzo teorico di Morris, come sfaccettatura propriamente artistica del nascente pensiero socialista, come tentativo massimalista di offrire al proletariato non solo pane e lavoro ma di donare anche il bello estetico, trasferito negli oggetti di uso più comune. Devitalizzata dall’industria culturale che la impone come prodotto di consumo, trasferendo i suoi segni sulle immagini delle scatole dei cioccolatini, eppure nuovamente esaltata e rianimata dagli artisti della Secessione Viennese, quali Gustav Klimt, il movimento liberty rappresenta comunque un immaginario popolare di enorme successo che si incontra e influenza, con effetti certamente positivi, quella nuova forma di produzione popolare e di consumo che è il fumetto.
In America, primitiva patria dei comics, ma anche in Italia, il fumetto è liberty. Basti pensare a quel mago onirico di Windsor McCay che trasferì nel suo Little Nemo (1905) le perfette scenografie visionarie di un Liberty purissimo dalle linee estremamente delicate.
Immagini che rimandano alle figurazioni di un Gustav Klimt o più propriamente di un Alfons Mucha, che trasferì la purezza dell’arte liberty in un immaginario di consumo e di successo.
McCay, Little Nemo
Il fumetto liberty
I personaggi di Rubino sulle pagine del Corriere dei Piccoli
L’Art Noveau era entrata pienamente nel gusto e nel senso estetico della generazione della belle époque. Chi disegnava i primi fumetti non poteva esimersi dall’offrire un ampio tributo iconografico all’arte, assieme sofisticata e popolare, che dominava i gusti dell’epoca. Questo accadeva, ovviamente anche in Italia, dove i primi fumettisti, sul Corriere dei Piccoli, davano brillante prova delle proprie capacità grafiche e inventive.
Fra questi spiccava, per la genialità dell’illustrazione, per capacità immaginativa, Antonio Rubino (1880-1964). Illustratore, disegnatore, artista senza confini, Rubino era stato capace di rielaborare il segno liberty in un tratteggio bidimensionale che sublimava le figure umane in decorazioni. Erano, quelle di Rubino, figure liberty, stilizzati geometrici del tutto piatti, a due dimensioni, figure specchiantesi a metà della vignetta come in un mondo fatto di doppi. Rubino, con la forza della sua potenza visionaria, relegava i suoi personaggi in un surreale mondo bidimensionale, ove agivano infervorati da una vitalità insana e grottesca, esercitando una indiscutibile malia nei confronti del lettore, che rimaneva sospeso fra la fascinazione e l’inquietudine.
Ma le seduzioni del Liberty non rimangono confinate nei primi passi del fumetto.
La ligne claire, cioè il segno reso famoso da Hergé, creatore del famoso Tintin che, a partire dagli anni Trenta, fu adottato da una intera scuola fumettistica franco-belga, ha un debito evidente con l’Art Nouveau. La linea chiara, proprio come la linea liberty, si dota di un tratto elegante e meticoloso ma pulito ed essenziale che si limita a conformare e delineare senza invadere lo spazio al di là delle definizioni delle figure.
Il recupero di Magnus, nelle sue opera più meditate, del tratto liberty, si rappresenta dunque come la consapevole riappropriazione, da parte dell’artista maturo, del filone artistico fondamentale e, in un certo senso fondante, del fumetto mondiale.
Il Liberty nella valle del terrore
Il Liberty, palesemente esibito da Magnus ne Le 110 pillole, sfocia nel suo capolavoro del 1996 in uno stile superbamente maturo, che raccoglie in una compiuta ed efficacissima sintesi un filone artistico-stilistico fondamentale del fumetto. Quel filone – abbiamo visto – nasce con il fumetto stesso, fondato sulle suggestioni dell’Art Noveau. Diviene, a un certo punto, ligne claire, che si valorizza nel tempo, raccogliendo le esperienze di autori diversi, anche piuttosto estremi.
Moebius a Venezia
Come quel Jean Giraud, che aveva adottato lo stile della ligne claire per le tradizionali tavole western del suo Blueberry. Poi, mutatosi in Moebius, aveva arricchito la propria linea, già di per sé descrittiva, di minuscoli segmenti tratteggiati che offrivano uno spessore e una profondità dimensionale, oltre che una inquietante cupezza chiaroscurale, sconosciuta alla scuola franco-belga.
Moebius divenne, dal punto di vista stilistico, un esempio cui Manara si avvicinerà sempre di più nel corso degli anni, sino a giungere quasi all’imitazione. Le difficoltà e le complicazioni che comportava quella scrittura fumettistica porteranno Manara, a partire da Il gioco, a tornare a uno stile liberty estremamente puro e lineare.
È affascinante invece notare come piuttosto Magnus, ne La valle del terrore, abbia dipanato il suo stile in una esplosione di minuscoli segni grafici che offrono un impressionante dettaglio visivo, accostabili alle finiture grafiche del miglior Moebius.
Ma è improbabile che l’autore bolognese abbia subito una tardiva fascinazione da parte di Moebius.
Risulta invece evidente con che alto livello qualitativo Raviola abbia recepito, trasferendolo nella sua ultima produzione, quel filone fumettistico liberty, le sue ramificazione e anche le tendenze più radicali.
Tex, La valle del terrore, Albo speciale n. 9, Sergio Bonelli Editore, 1996, p. 39
Ma, anche se La valle del terrore si configura come un piacevolissimo esempio di linea chiara, sarebbe riduttivo contrassegnare l’opera ultima di Magnus con una semplice etichetta esemplificativa. La tanto grande tensione stilistica verso la perfezione, che si avverte in ogni vignetta, induce a posizionare il lavoro di Magnus come un compendio fumettistico estremo, una colonna d’Ercole dell’avventura del fumetto mondiale, un summa racchiudente in sé innumerevoli esperienze e contenuti. Gli innumerevoli significanti del fumetto, conquistati attraverso una storia quasi secolare, sono tradotti in una chiarezza stilistica estrema che si esprime attraverso un minuzioso lavoro di dettaglio che investe ogni più piccolo particolare. Sembra quasi che tutti i grafemi del fumetto abbiano trovato la loro perfetta posizione e che non sarà più possibile, dopo La valle del terrore, esprimere qualcosa di altrettanto perfetto.
Magnus non ha bisogno e non si serve degli eccessi stilistici delle avanguardie per collocare il suo lavoro in una posizione estrema rispetto a tutte le altre opere fumettistiche ma si avvale dei mattoni tradizionali della storia del fumetto, in particolare quelli che hanno costituito l’ossatura più solida del fumetto, e cioè gli elementi stilistici propri della linea chiara.
Con questa sua operazione, nello stesso tempo classica e rivoluzionaria, Magnus si consegna alla storia del fumetto come autore popolare e tradizionale ma nello stesso tempo inconsueto e straordinario.
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