Il Time ha scelto la persona dell’anno 2014. Premiati gli operatori anti-Ebola

Creato il 27 dicembre 2014 da Cafeafrica @cafeafrica_blog
Hanno rischiato e perseverato, si sono sacrificati e salvati. Nancy Gibbs, direttore della rivista Time che puntualmente premia “la persona dell’anno”, spiega perché la scelta 2014 è ricaduta su gli “Ebola fighters”.

Non è l’arma scintillante a combattere la battaglia, ma piuttosto il cuore dell’eroe.

Questo è vero in ogni battaglia ed è sicuramente vero per una guerra che viene combattuta con candeggina e preghiere.

Per decenni l’Ebola ha tormentato i villaggi rurali africani come un mostro mitico che di tanto in tanto sale a chiedere un sacrificio umano e poi torna nella sua caverna. Ha raggiunto l’Occidente solo in forma di incubo, un orrore di Hollywood che fa sanguinare gli occhi e dissolvere gli organi e che i medici non sanno curare.

Ma il 2014 è l’anno di un focolaio che si è trasformato in un’epidemia, alimentata dallo stesso progresso che ha tracciato strade, alzato città e sollevato milioni di persone dalla povertà. Questa volta ha raggiunto baraccopoli affollate in Liberia, Guinea e Sierra Leone, ha viaggiato in Nigeria e Mali, fino alla Spagna, la Germania e gli Stati Uniti. Ha colpito medici e infermieri in un numero senza precedenti, spazzando via una sanità pubblica debole.

Il che ci porta al cuore della storia. C’era ben poco per fermare la diffusione della malattia. I governi non erano pronti; l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha prima negato poi accusato la burocrazia. I primi soccorritori sono stati accusati di gridare al lupo al lupo, anche se il pericolo cresceva. Eppure persone sul campo, le forze speciali di Medici Senza Frontiere (MSF), i soccorritori di Samaritan’s Purse e gente proveniente da tutto il mondo hanno combattuto fianco a fianco con medici e infermieri locali, con autisti di ambulanze e squadre di sepoltura.

L’Ebola è sia una guerra sia un avvertimento. Il sistema sanitario globale in nessun posto è forte abbastanza da tenerci al sicuro da malattie infettive e ciò vale per tutti, non solo per i paesi remoti. Se il mondo può ancora dormire la notte è grazie a uomini e donne disposti a resistere e combattere. Per gli atti instancabili di coraggio e di misericordia, per aver offerto al mondo più tempo per progredire con la ricerca, per i rischi, la persistenza, il sacrificio e l’aiuto, gli “Ebola fighters” sono senza dubbio la “Person of the Year” 2014.

Ecco perché il Time ha scelto di stampare cinque differenti copertine, in cui sono ritratti due medici, un operatore sanitario, un’infermiera e il conducente di un’ambulanza.

1. Dott. Jerry Brown, 46 anni, direttore medico e chirurgo a Monrovia, Liberia

È la sua immagine che campeggia nella copertina principale, quella che ha fatto il giro del mondo: due occhi che spuntano, ricchi di speranza, da un volto completamente coperto dalla tenuta anti-ebola, quella tuta bianca con tanto di mascherina e occhiali in plastica diventata tristemente famosa nelle immagine passate dai media negli ultimi mesi. La fotografa Jackie Nickerson ha deciso di immortalarlo nella cappella del suo ospedale, quella che Brown ha reso il primo centro di trattamento di Ebola di tutta la Liberia.

Brown è l’emblema dell’eroe per caso. Lui non avrebbe mai voluto combattere Ebola. Non l’ha chiesto, non l’ha cercata. Quando, a fine marzo, iniziò a sentire le prime notizie di casi di suoi connazionali infettati nelle contee che confinavano con la Guinea, ha deciso, da buon direttore medico, di creare un’ala del suo ospedale per poter accogliere eventuali malati in attesa di un trasferimento a strutture più attrezzate. Poi, a giugno, la telefonata che gli ha cambiato la vita: era il viceministro della Salute che lo avvisava che la sua era la struttura più attrezzata del Paese. Una semplice ex cappella svuotata e “sterilizzata”: questa era la struttura più attrezzata contro il virus dell’intera Liberia. Arrivarono i primi due infetti e la paura di Brown era enorme. Il problema è che nessuno sapeva come comportarsi davanti a questo virus: Brown e i suoi colleghi erano gli unici che prendevano la precauzione delle coperture, il resto del Paese tentava di salvare i malati senza alcuna protezione. Brown iniziò a tenere delle piccole lezioni al riguardo, e intanto la sua ex cappella divenne, col passare dei giorni, la prima area di trattamento di Ebola dell’intera Liberia. Poteva accogliere appena 6 persone. Tutti i malati individuati venivano inviati da lui. Morivano in fretta purtroppo e un posto lo si trovava sempre. Ma il numero continuava a crescere e, così, anche l’area cucina e lavanderia fu adibita ad area di trattamento della malattia. Oggi continua a lottare contro la paura, contro l’ansia della moglie che vorrebbe la smettesse di rischiare la propria vita ogni giorno, contro il sovraffollamento del suo ospedale.

2. Dott. Kent Brantly, 33 anni, volontario di Samarithan Purse, infetto dal virus e sopravvissuto

Kent Brantly è giovane, ma in pochi mesi ha vissuto l’inferno più volte. Prima ha vissuto l’inferno della povertà assoluta in Liberia, come medico volontario nell’associazione americana Samarithan Purse. Era il 2013 quando decise di volare nel cuore dell’Africa nera per provare a migliorare le cose. Poi, come un fulmine a ciel sereno, s’è trovato nell’inferno dell’epidemia di Ebola: era il marzo 2014 e la Liberia fu presa totalmente alla sprovvista. Lui, insieme a tanti suoi colleghi, iniziò a lavorare per limitare i danni. Fu a quel punto che entrò in contatto con Jerry Brown e il suo ospedale a Monrovia. Infine destino ha voluto che visse l’inferno della malattia: Kent Brantly fu contagiato. Non sa ancora come, se lo chiede ancora oggi. Sa solo che un giorno il suo corpo ha iniziato a rilevare i sintomi della malattia. Un test gli diede la drammatica conferma. Era luglio.

L’America, suo Paese natale nel quale, nel frattempo, era stato rimpatriato, iniziò a prodigarsi per tentare di salvargli la vita. Insieme a lui c’era un’altra infetta: l’infermiera Nancy Writebol. Arrivò una dose di un farmaco sperimentale, lo ZMapp, che aveva funzionato sulle scimmie. Ma loro erano due, e la dose una. Brantly decise di lasciarla alla Writebol. «Non stavo cercando di essere un eroe. La mia è stata la decisione razionale di un medico» spiega oggi Brantly. Nei due giorni seguenti la sua condizione peggiorò e i medici attorno a lui fecero il possibile per guarirlo. Fino a quando, inaspettatamente, la malattia abbandonò il suo corpo. Non parla mai di miracolo, ma ringrazia il Signore. Sa di essere uno dei pochi fortunati e ammette che, talvolta, prova quasi una specie di vergogna per essere guarito mentre migliaia di persone continuano a morire ogni giorno. Ma queste esperienza non ha fatto altro che rafforzare la sua volontà di essere un medico missionario.

3. Salome Karwah, 26 anni, assistente infermiera per Medici Senza Frontiere, infetta dal virus e sopravvissuta

Nella copertina del Time ha lo sguardo duro e deciso di una donna che sa perfettamente come funziona il mondo, nonostante abbia solo 26 anni. Salome Karwah è una giovane assistente infermiera che in Liberia aveva deciso di aiutare, per quanto possibile, l’associazione Medici Senza Frontiere. A differenza di Kent Brantly, Salome Karwah sa perfettamente come ha contratto il virus: una signora della sua comunità era andata al funerale di una ragazza morta di Ebola. Si ammalò e contagiò molte persone a lei vicine, tra cui Salome. Si infettò anche la sorella di Salome, incinta di sei mesi, e suo padre. Sua madre fu la successiva ad ammalarsi, e anche il nipotino di appena 6 anni. Suo padre e sua madre morirono nel giro di tre giorni: il 21 e il 24 agosto. Pochi giorni dopo si è ammalato anche il suo compagno. Salome ha anche un bambino, di appena 10 mesi, che ebbe la prontezza di affidare ad una amica. Fu proprio suo figlio, riferisce oggi, a darle la forza di non abbandonarsi al lancinante dolore che provoca Ebola, sovraccaricato dal dolore per la perdita di tante persone care e la consapevolezza che tante altre avrebbero potuto abbandonarla di lì a poco.

Quattro settimane e quattro giorni dopo il suo ingresso nella clinica del dott. Jerry Brown a Monrovia, Salome guarì. Non sa neppure lei come, veniva curata come tanti altri malati, ma lei è sopravvissuta, molti altri no. Da quel momento ha iniziato a cercare altri sopravvissuti che siano disposti a collaborare con Medici Senza Frontiere nella lotta alla malattia. Ogni giorno va a trovare i malati nella clinica di Monrovia. Si siede, stringe loro la mano, gli parla. Racconta che è una sopravvissuta e che se ce l’ha fatta lei possono farcela anche loro. Infonde una goccia di fiducia in un oceano di sofferenza. E spera che quella goccia possa diventare la speranza su cui credere ancora in un futuro migliore.

4. Foday Gallah, 37 anni, autista di ambulanza a Monrovia, infetto dal virus e sopravvissuto

Tra le sue braccia sono morte centinaia di persone infette da Ebola. Sulla “sua” ambulanza, centinaia di volti distorti dal dolore si sono susseguiti negli ultimi mesi, nella speranza di raggiungere ancora in vita la clinica di Jerry Brown a Monrovia, capitale della Liberia. E proprio così, durante uno di questi disperati viaggi, Foday Gallah ha contratto il virus. Era agosto e tra le braccia teneva un piccolo di 4 anni che vomitava in continuazione, distrutto dal virus. Foday lo stava per portare alla clinica, dove la mattina aveva portato altri tre membri della famiglia del bambino, e nei giorni precedenti altri quattro. Aveva la tuta protettiva, ma mentre il piccolo gli vomitava addosso si accorse che non era ben chiusa. Non ci fece caso, doveva provare a dare una speranza di vita a quel bambino. Il sabato successivo Foday si ammalò. Racconta che sapeva che prima o poi sarebbe successo: allontanò da sé la sua famiglia e si recò da solo all’ospedale. Era spaventato, ma sperava che il Signore gli desse la forza di affrontare la malattia. Di fianco a lui, in ospedale, in due settimane morirono molte persone, tra cui un bambino di appena 2 anni e mezzo. Lui, intanto, migliorava. Anche il bambino di 4 anni che lo aveva infettato sopravvisse e Foday lo prese come un segno del destino.

Nei primi giorni di dicembre, Foday è tornato a guidare la sua ambulanza. La sua famiglia l’ha riaccolto e non l’ha respinto come invece è successo a molti infettati sopravvissuti, accusati di essere degli untori e per questo emarginati. A non volerlo rivedere, invece, sono molti suoi vecchi amici, impauriti. Proprio per questo, vivendo da vicino la realtà dell’emarginazione, Foday, oltre a guidare ogni giorno la sua ambulanza, porta avanti una battaglia personale per sensibilizzare l’opinione pubblica: «Io dico alla gente di non voltare le spalle ai loro cari. Dico di isolarli in una stanza, di dargli da mangiare a distanza di sicurezza con un bastone e parlargli così: “Mamma o papà, resta nella tua stanza. Purtroppo non posso avvicinarmi né toccarti. Ma mi prenderò cura di te fino a quando non arriva aiuto”».

5. Ella Watson-Stryker, 34 anni, responsabile per Medici Senza Frontiere

Era marzo ed Ella Watson-Stryker si trovava nella sua casa a New York. Ricevette una telefonata da Medici Senza Frontiere, associazione con cui, da diverso tempo, collaborava. Le segnalarono una situazione grave di febbre emorragica in Guinea. Tre giorni dopo era su un aereo. Durante lo scalo a Londra, ricevette un’altra telefonata: «È Ebola. Non andare». Ci pensò seriamente, Ella pensò seriamente di tornare nella sua casa a New York. E, invece, poche ore dopo, atterrava in Guinea. Due giorni di viaggio e raggiungeva Gueckedou, il villaggio in cui l’epidemia sembrava essere scoppiata. Fu accolta come una salvatrice, peccato che lei sapesse di non poter fare granché per salvare delle vite: troppo irruente e incontrastabile il virus per poterlo limitare con la sola forza della volontà e dell’esperienza.

Il lavoro di Ella è un lavoro che lei stessa definisce «ai limiti dell’impossibile»: sensibilizzare la comunità locale sull’epidemia e sulla malattia è difficile perché l’ignoranza e la paura rendono chiuse e “sorde” a ogni consiglio le persone. Ebola è un virus ancora più pericoloso perché semina il panico, che crea falsi miti e porta le persone nel mondo dell’irrazionale. Il compito di portare razionalità nella paura, quindi, è uno dei più complicati. Ella viaggia ogni giorno nella speranza che le sue parole possano aiutare anche solo una persona a non infettarsi, ma è dura. «L’esperienza in Guinea mi sta spezzando il cuore. Non ero preparata a tanti morti. Non ero preparata a veder morire intere famiglie. Non ero preparata a veder morire interi villaggi. È emotivamente devastante». Ella ha un’infinità di storie tragiche da raccontare. Le conosce tutte, nei minimi dettagli. Ma spesso le tiene per sé. Sa che non serve a niente raccontarle. A volte non serve a niente tutto il suo duro lavoro, figurarsi quanto possono servire le parole. Ma nonostante questa forte sensazione di impotenza, preferisce continuare ad essere lì, al centro dell’inferno, piuttosto che a casa a New York. E pensare che 7 mesi fa è stata sul punto di girare le spalle a tutto questo.


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