Quel giorno, sotto il gelso più grande trovammo una talpa morta da poco, un piccolo animale in una situazione tuttavia strana ed inusuale anche per noi. Si decise subito di organizzare un funerale. Il luogo fu scelto con cura alle pendici delle basse colline della strada della Cerca, in località detta gli Autén, come si scriverebbe in un verbale dei Carabinieri. Inforcammo tutti le biciclette, spingendo sui pedali giù dalla discesa. Io avevo una Maino gialla con il manubrio corto, sportivo e cambio Campagnolo a cinque rapporti, che il mio papà, pur con grandi sacrifici non aveva saputo negarmi. Come ero contento di quella bicicletta; spingevi sui pedali sul rapporto più corto e ti sembrava di volare lungo la discesa, mentre l'aria ti sferzava le guance, con quell'odore di sambuco ed i pappi dei pioppi che scivolavano via veloci senza posarsi per terra, scompigliati dalla velocità. Arrivammo con tutta la banda nel luogo prescelto, dove fu scavata una piccola buca e, depostovi il cadaverino peloso, con cura preparato un piccolo monticello della terra grassa, nera e morbida tra i canneti vicino al fosso. A questo punto, l'opera andava compiuta, così qualcuno aveva ideato, altri avevano compiuto, altri ancora avevano collaborato materialmente alle operazioni tecniche connesse alla sepoltura, qualche ragazza aveva assistito con sguardo mesto, ma qualcuno doveva incaricarsi dell'orazione funebre. Avete indovinato, toccò a me l'onere della prolusione che pronunciai con sussiego e compunzione, così come il frangente richiedeva. Niente da fare, il mio destino era già segnato. La vecchia bicicletta gialla invece è lì che giace arrugginita e con le gomme sgonfie nell'angolo più scuro della cantina, triste, quasi si vergognasse di esserci ancora.
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