Il Vampiro e Un mistero della campagna romana – I veri protagonisti si nascondono

Creato il 07 agosto 2013 da Loredana Gasparri
Continuano le letture “rinfrescanti”. Dopo i mostri reali, avevo bisogno di ritornare a quelli letterari, o anche solo “metaforici”. Saruman ha appena ricevuto schiaffoni in piena faccia dagli Ent, che gli hanno letteralmente distrutto casa da sotto i piedi, e fatto fare una fine misteriosa e terribile ad una buona parte dei suoi eserciti contro natura, e ora sta affrontando Gandalf e Aragorn, decisi a tenere le orecchie chiuse ai suoi toni mellifui da incantatore di serpenti. E, per contrastare il caldo, e rituffarmi nell’amata letteratura inglese, ecco un altro vampiro letterario, che fu un piccolo caso, a suo modo. Anche John William Polidori, il suo creatore, fu un esempio singolare di uomo. Di origine italiana, fu medico, scrittore e segretario nonché dottore personale di Lord Byron. Dev’essere stato un temperamento particolarmente brillante e sanguigno, allo stesso tempo, di quelli che sentono le emozioni espandersi in tutte le fibre fino ad impadronirsi della mente e zittirla con impeto. Si laureò a vent’anni a Edimburgo, e costruì un rapporto difficile e tormentato con il suo datore di lavoro e amico, nonché nemico e principale antagonista, Lord Byron. Un rapporto in cui odio e amore erano talmente intrecciati da confondersi e sconfinare nella morbosità e nello scontro continuo. Dopo una rottura particolarmente esasperata con il poeta inglese, e aver passato un brutto periodo di ristrettezze economiche, trovandosi nell’impossibilità di saldare un debito, Polidori compose per se stesso un veleno, con cui si tolse la vita nel 1821. Una fine “romantico-gotica”, potremmo dire, perfettamente allineata con quella parte della tarda letteratura Settecentesca, che virava verso il terrore e il fantastico, che aveva in Horace Walpole e Anne Radcliffe i suoi massimi esponenti. Bram Stoker sarebbe arrivato da lì a poco a rafforzare questo flusso, con il suo Dracula (1897), e a trasformarla in qualcosa di più, di una semplice corrente letteraria. Ottantuno anni prima, nel 1816, Polidori creò il suo Vampiro, in un’occasione particolare, diventata poi celebre nella storia della letteratura. Nell’estate di quell’anno, Lord Byron e Polidori, Percy Bysshe Shelley e sua moglie Mary, soggiornarono in una villa sul Lago di Ginevra. Costretti al chiuso da un tempo atmosferico inclemente, che li copriva di pioggia, allestirono una sorta di gara di scrittura di racconti dell’orrore. Solo Polidori e Mary Shelley presero sul serio la competizione, e il risultato fu Il Vampiro e Frankenstein. Lord Byron e Shelley scrissero alcune bozze e frammenti, che non ripresero. Polidori scrisse un racconto, che poi scartò completamente, e colpito dal canovaccio byroniano, lo riprese ed elaborò. Aggiunse all’embrione di personaggio che si era ritrovato alcune caratteristiche che conosceva molto bene, avendole sotto gli occhi tutti i giorni: un atteggiamento altezzoso, indifferente, una personalità magnetica, ma volta al Male e alla soddisfazione egoistica, il desiderio di rovinare la bellezza divorandola e buttandone via i resti, la volontà di primeggiare, pur senza farsi toccare. Ecco Lord Ruthven, l’esasperazione letteraria e la traduzione in termini negativi di Lord Byron. Questo almeno, secondo la visione di Polidori. In questo breve racconto, Lord Ruthven, aristocratico rubacuori molto eccentrico, fa amicizia con un giovane gentiluomo scapestrato, di nome Aubrey. Quest’ultimo, attirato dal suo atteggiamento così snob e incurante e dal suo carattere così ombroso e misterioso, organizza un viaggio con lui per l’Europa, per aver occasione di studiarlo meglio. Presto, tuttavia, si accorge della crudeltà e dell’indifferenza verso le vite altrui dietro quella facciata, che lo porta a corrompere e sedurre giovani fanciulle nobili, senza un ripensamento o un rimorso. Dopo aver sventato l’ultimo piano di seduzione ai danni di una giovane romana, Aubrey lo abbandona e prosegue il viaggio da solo. Non per molto: reincontrerà l’ex-amico in circostanze rocambolesche, e in punto di morte, Lord Ruthven gli strapperà un giuramento. Per nulla al mondo, Aubrey dovrà rivelare ad anima niente che lo riguardi, prima di un anno e un giorno. Il giovane, perplesso, acconsente, e Lord Ruthven muore. Sembra tutto finito? Tutt’altro. Aubrey torna in patria, in Inghilterra, e ritrova il tenebroso gentiluomo, occupato nella sua attività preferita di cacciatore rovinoso di fanciulle giovani e inesperte. Nel tentativo di contrastarlo, e di tenere fede a quello strano giuramento, Aubrey finisce per ammalarsi e rischia di smarrire la ragione, che finisce per perdere quasi del tutto quando scopre, troppo tardi, che il vampiro si è insediato stabilmente nella sua famiglia.
Come Stoker, Polidori sa come far crescere la suspense. All’inizio è lento, ma inserisce una certa dose di mistero e di incredulità, come se il personaggio stesso fosse indeciso se credere a ciò che vede e sente, e alle sue sensazioni. Fa intuire, più che dichiarare apertamente. La parola vampiro, in questo breve racconto, ricorre poche volte, rispetto all’argomento, e sempre a bassa voce, come se pronunciarla apertamente portasse sfortuna o attirasse disgrazie. Mentre Stoker è più ottimista, nel senso che i suoi personaggi sono spinti anche da un senso di fiducia in se stessi e nella razionalità, per cui riescono a mantenere i nervi a posto di fronte ad apparizioni spaventose, Polidori appare più in balia del lato oscuro. I suoi personaggi si ammalano perché i cuori sentono con troppo impeto le passioni, e si lasciano trascinare dalla paura evocata dal soprannaturale, invece di sgombrare la mente e reagire. Stoker vive in un’epoca apparentemente più stabile, in pieno post Rivoluzione Industriale, quando l’America stava correndo per aggiungersi al numero delle potenze mondiali, quando le scienze empiriche stanno prendendo piede, e l’ottimismo della creazione fa pensare all’uomo di essere in grado di imbrigliare tutto, anche le forze apparentemente meno controllabili. Polidori non regge le pressioni nella sua breve vita intensa, e se ne va “sbattendo la porta”, di sua mano. Sia Stoker sia Polidori modellano i loro vampiri su personaggi che avevano sotto gli occhi: anche Stoker fu a lungo segretario e manager personale di Henry Irving, grande attore inglese della sua epoca. Mentre il secondo era forse schiacciato dalla personalità invadente di Byron, al punto di soffrirne fisicamente, Bram Stoker ebbe un lungo rapporto di fiducia con il suo datore di lavoro/amico, almeno fino alla morte dell’attore. In qualche modo, questi uomini famosi, un poeta e un attore, dalla personalità molto marcata e sempre da protagonista, erano in qualche modo percepiti come invadenti, ed estenuanti. Stare dietro a persone abituate a stare al centro, e a comportarsi come fossero i primi di tutti, non doveva essere facile e forse lasciava un po’ vuoti e sfiancati, esattamente come un vampiro lascerebbe vuota la sua vittima, dopo averle portato via il sangue vitale.
In questa edizione dei Tascabili Economici Compton, tuttavia, è contenuto anche un altro brevissimo racconto, Un mistero della campagna romana, di Anne Crawford. Di questa scrittrice si sa veramente pochissimo: era figlia di Thomas Crawford, scultore inglese, che visse per diverso tempo in Italia. Anche qui c’è un vampiro, ma si tratta di una donna: la tenebrosa Vespertilia, che seduce e vampirizza l’istrionico protagonista della storia, Marcello, un cantante lirico italiano. La storia è raccontata da un amico di Marcello, e da una terza persona, un inglese con la testa sulle spalle e scarsa predisposizione a credere in fantasmi o creature sovrannaturali. Tuttavia, dovrà ricredersi quando vedrà con i suoi occhi apparire la bruna ed esangue Vespertilia dalla sua tomba per ghermire Marcello in un ultimo abbraccio. Tra i vampiri degli inizi, questa giovane di epoca romana è la prima a fare la sua comparsa, prima delle consorti di Dracula di Stoker, prima della più famosa e presente  Carmilla di Sheridan Le Fanu, di cui può essere considerata una sorta di ava. Sia Polidori, sia Anne Crawford, trattano i loro vampiri con i guanti di velluto: non ne parlano volentieri, lo fanno a mezza voce, lasciandosi scappare dettagli neri e inquietanti, guardandosi le spalle per paura di essere osservati da questa creatura non morta e terrificante. Polidori urla quella parola per finire il suo romanzo, come se non si potesse dire altro, e Crawford la urla come un insulto, quando interverrà l’amico inglese di Marcello, e agirà come un Van Helsing molto giovane. A differenza di Stoker, che ne parlerà con competenza tramite la rievocazione triste del cacciatore di vampiri per eccellenza, e degli autori odierni, come Stephen King e Anne Rice, che considereranno queste creature come un’altra manifestazione del Male su questa terra, poco conosciuta ma rientrante nell’ordine della realtà umana. 

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