Wikipedia dopo avere affermato che Underworld è uno dei romanzi più importanti degli ultimi decenni, vincitore di numerosi premi internazionali, lo indica come uno dei massimi esempi della letteratura postmoderna americana e ne riporta un passo fondamentale:
«La palla da baseball non portava né fortuna né sfortuna. Era un oggetto che passava di mano. Ma spingeva la gente a raccontargli cose, confidargli segreti di famiglia e storie personali inconfessabili, a singhiozzare di cuore sulla sua spalla. Perché sapevano che lui era il loro, come dire, il loro strumento di sfogo.
Le loro storie avrebbero assunto un rilievo diverso, sarebbero state assorbite da qualcosa di più vasto, il lungo viaggio della palla stessa e l’assurda marcia di Marvin nel corso dei decenni.»
E poi ne fornisce un breve riassunto:
La vicenda inizia il 3 ottobre 1951, quando un ragazzino di colore riesce ad entrare di soppiatto nello stadio (il Polo Grounds di New York) in cui si sta giocando la storica partita di baseball tra i New York Giants (oggi San Francisco Giants) e i Brooklyn Dodgers (gli attuali Los Angeles Dodgers). Nel nono inning della partita, il famoso battitore Bobby Thomson effettua un memorabile fuoricampo, dando la vittoria ai Giants (5-4 il punteggio), che conquistano così il campionato. Nella realtà non si sa che fine abbia fatto la palla colpita da Thomson, ma nel romanzo il ragazzino riesce a impadronirsi di questo cimelio, che gli verrà però sottratto dal padre, il quale lo venderà per 32 dollari e 45 cents. La palla da baseball inizia così a passare di mano in mano, e viene usata come un filo conduttore per la costruzione di un gigantesco affresco dell’America dall’inizio della Guerra Fredda fino agli anni ‘90.
A tutto questo io aggiungo:
Underworld è un tomo di ben 880 pagine, difficile da digerire al pari dell’Ulisse di Joyce e ci è voluta tutta la mia buona volontà, diluita nell’arco di tre mesi, per arrivare fino in fondo. Per quel che mi riguarda dico che ne è valsa la pena, ma di certo non è un libro per tutti i palati. Dovrebbero leggerlo con estrema attenzione coloro che hanno velleità letterarie, per chi invece intende la lettura come svago della mente il mio consiglio spassionato è di lasciarlo perdere ma, in alternativa, dedicare un quarto d’ora del proprio tempo per farsi un’idea della bravura di Don DeLillo godendosi questo bellissimo capitolo che ho stralciato per voi dalle pagine di Underworld.
Buona Lettura!
Nicola
Edizione Einaudi – Super ET – Euro 16,50
Capitolo Terzo pagg. 572-580
11 gennaio, 1955
Circolavano strane storie sul Papa. Strani aneddoti, quel tipo di dicerie sotterranee che riescono ad attraversare un intero paese, di parrocchia in parrocchia. Papa Pio aveva visioni mistiche. Era questa la voce che circolava. Il Papa aveva assistito a una serie di avvenimenti soprannaturali, sotto forma di visioni nel cuore della notte. Questo era quello che raccontavano certe persone, tipo, non so, suore, vecchie signore nelle serate di novena, ma anche parrocchiani abbienti, rosei e in buona salute, membri dell’associazione dei Knights of Columbus. La gente sente una storia del genere e qualcosa si rimescola nell’anima, qualcosa spicca un balzo dalla vecchia cara cantilena della vita e costringe a una lettura completamente diversa della realtà.
In classe uno studente accennò a queste voci con padre Paulus nel corso di una discussione che sfiorò l’argomento della taumatologia, ovvero lo studio dei miracoli.
Il vecchio prete guardò fuori dalla finestra.
- Se avessi bevuto rosso scadente fino alle tre del mattino, anche tu avresti le visioni.
Più tardi, nel corso della giornata, andai a trovare padre Paulus nel suo ufficio. Dovetti percorrere trecento metri sotto una tempesta di neve. Con i lembi del berretto di lana tirati sulle orecchie, mi proteggevo con l’avambraccio alzato, dal nevischio tagliente, da tutta quella violenza fisica, la tempesta di neve e gli spazi aperti, la realtà di una distesa di terra chiamata Nord America che mi era totalmente nuova.
Il padre cominciò a parlare prima che mi togliessi il giubbotto.
- Ecco, è quando mi si irrigidiscono i peli del naso che mi viene voglia di ritirarmi nel Sud della Francia.
- La neve sulla piazza.
- Sì. Lo so.
- Le panchine sono sepolte.
- Sì, – disse lui.
- Me ne accorgo adesso, guardando fuori dalla finestra, laggiù, ho camminato su una panchina.
- Sì. Mettiti a sedere Shay e dimmi come vanno le cose. Parlami un po’ dei progressi di un giovane. Sarà il titolo di questa seduta.
- Mi sono fatto prestare un paio di stivali.
La risposta gli piacque.
- Ti vanno bene?
- No.
Meglio ancora. Quando mi interrogava sul mio stato mentale e spirituale, cosa che faceva solo raramente, se davo risposte pratiche, come facevo sempre, sembrava credere che escogitassi una risposta terra terra grazie a un istinto virile, mentre in realtà ero solo confuso, perennemente alle prese col tentativo di mettere insieme una frase accettabile.
- Cosa stai leggendo?
Snocciolai una lista di titoli.
- Capisci quello che c’è in quei libri?
- No, – dissi.
Lui sorrise di nuovo. Doveva essere stanco di ragazzi dotati. Aveva lavorato con ragazzi molto preparati e credo avesse voglia di parlare con canaglie dell’altro tipo, quelli che avevano creato problemi a se stessi e agli altri.
- Qualcosa capisco. E quello che non capisco, lo imparo a memoria.
Teneva il gomito appoggiato sulla scrivania e sorreggeva la testa con la mano piegata. Niente sorriso stavolta.
- Non è questo il motivo per cui abbiamo creato questo posto, ti pare?
- Ma io studio come un matto, padre.
- D’accordo, ma non puoi imparare a memoria le idee come fai con le desinenze latine.
Le sue mani erano piccole e prive di macchie. Alcuni degli altri gesuiti indossavano maglie di flanella e maglioni pesanti, ma padre Paulus non si lasciava influenzare dal clima o dalla geografia , né dall’atmosfera di speciale libertà che regnava al Voyageur. Lui vestiva il completo nero con il colletto ecclesiastico, cosa che rispettavo e trovavo rassicurante.
- Qui, uno dei nostri principali obiettivi è produrre uomini seri. Che razza di fenomeno è un uomo serio? Non è cosi facile da spiegare. È una persona che, alla fine, sviluppa una certa profondità, un grande spazio interiore, diciamo, sotto forma di rispetto per altri modi di pensare e di credere. Vediamo di allargare un po’ lo stretto sistema delle tubature umane e vediamo di aiutare un giovane a raggiungere una forza etica che lo renda deciso, che gli mostri precisamente chi è, Shay, e come è destinato ad affrontare il mondo.
Si aveva sempre paura di deludere il padre, di non essere all’altezza del discorso. E di essere piatti, mentre lui voleva uno scambio più vivace, fosse anche un comportamento da spaccone, insolente e menefreghista. Piatto e sgobbone, mentre lui voleva l’indipendenza e la discussione aperta.
- La mia vita, lo confesso … sì, perché no, tu sentirai la mia confessione, Shay. Chi altri potrebbe ascoltarla meglio di te? Mi ci sono voluti tutti questi anni per capire che non sono un uomo serio. Troppa ironia, troppa vanità, troppo poco di, come dire, di un sacco di cose. E nessuna rabbia, capisci. Una piccola rabbia da unghia incarnata, un’insignificante frustrazione. Alla fine arrivi a capire queste cose. Cosa bisogna fare? Agire in base ai principi? Oppure individuare ragioni che giustifichino il tuo cattivo comportamento? Questa è la mia confessione, non la tua, quindi non sei tenuto a rispondere. Non ancora, almeno. Alla fine, sì. Alla fine, in cuor tuo saprai fino a che punto hai soddisfatto l’impegno di essere un uomo.
- Nessuna rabbia, – dissi io. – Cosa intende dire?
- Nessuna rabbia. Rabbia e violenza possono essere elementi di tensione produttiva in un’anima. Possono contribuire alla pienezza della propria identità. Uno dei modi che un uomo ha a disposizione per liberarsi dalla meschinità è di dare un pugno in bocca a un altro uomo.
Dovevo averlo guardato con tanto d’occhi.
- Questo non puoi metterlo in discussione, vero? Non mi piace la violenza. Mi spaventa a morte, ma penso che possa rappresentare una forza di espansione per la personalità. E penso che la capacità di un uomo di opporsi alle proprie tendenze violente possa essere fonte di virtù, un’affermazione di carattere e tolleranza.
- Allora cosa bisogna fare? Prendere a pugni o resistere alla tentazione?
- Bene, vedo che hai capito il problema, ma io non ho la risposta. Tu sì, – disse. – Ma quanto può essere serio un uomo se non sperimenta fino in fondo gli appetiti e le passioni della sua razza, anche solo per reprimerle o usarle, in un modo o nell’altro, proficuamente?
Chi meglio di te può ascoltare la mia confessione? Aveva detto proprio questo, giusto? Uno che è stato in riformatorio. Uno che ha la risposta. Naturalmente io non avevo niente che assomigliasse a una risposta e mi chiedevo perché lui fosse convinto che possedessi una conoscenza speciale per aver fatto quello che avevo fatto.
- Ti sei mai imbattuto nella parola velleità? Possiede una bella eco tomistica. La volontà al suo livello più basso. Una piccola cosa, un desiderio, una tendenza. Se hai una volontà debole, finisci per vivere nelle pieghe più superficiali delle tue preoccupazioni. Stiamo andando a parare da qualche parte?
- È la sua confessione, padre.
L’ufficio era in una delle vecchie baracche e la forza del vento scuoteva le travi facendole scricchiolare.
- L’Aquinate diceva che solo le azioni intense rafforzano un’abitudine. Non la semplice ripetizione. L’intensità è utile alle conquiste morali. Una volontà intensa e perseverante. Questo è un elemento di serietà. La perseveranza. Questo è un elemento. Un senso di finalità. Un compito che ci assegniamo da soli. Dimmelo se sto farneticando. Ti rispetterò per questo.
Eravamo a circa trenta miglia dal confine canadese in un disordinato ammasso di baracche e altre strutture di legno, un ritorno alle origini, forse, alle radici missionarie dell’ordine – eccetto che gli indigeni in questo caso eravamo noi. Poveri ragazzi di città che davano qualche speranza; alcuni dal corpo fragile e dalla memoria fotografica, con una certa sporcizia addosso; quelli che erano intelligenti ma instabili; quelli che non riuscivano ad adattarsi; quelli il cui adattamento era stato imposto dallo stato; un gruppo di latino-americani di un centro gesuita in Venezuela, giovani svegli e intelligenti dall’aria cosmopolita, con le chiappe congelate; e alcuni ragazzi di campagna, di fattorie poco distanti, più goffi di un vestito preso a prestito.
- Talvolta penso che l’educazione che dispensiamo qui sia più adatta a un cinquantenne che ha capito di aver mancato il bersaglio al primo giro. Troppe idee astratte. Verità eterne a destra e a sinistra. Ti servirebbe di più guardarti una scarpa e nominarne le parti. A te in particolare, Shay, visto da dove vieni.
Questo parve rianimarlo. Si sporse sopra la scrivania e fissò, letteralmente, i miei stivali bagnati.
- Sono oggetti orribili, vero?
- Sì, senza dubbio.
- Nominami le parti. Coraggio. Qui non siamo così ricercati, non siamo cosi intellettualmente chic da non poter esaminare uno studente faccia a faccia.
- Nominare le parti, – dissi. – D’accordo. Stringhe.
- Stringhe. Una su ogni scarpa. Procedi.
Alzai un piede e lo girai goffamente.
- Suola e tacco.
- Sì, continua.
Posai di nuovo il piede a terra e fissai lo stivale, che mi parve inespressivo quanto uno scatolone chiuso.
- Procedi, ragazzo.
- Non c’è molto da nominare, le pare? Un davanti e un dietro.
- Un davanti e un dietro. Mi fai venir voglia di piangere.
- La parte arrotondata sul davanti.
- Sei talmente eloquente che devo fare una pausa per riavermi. Hai nominato le stringhe. Come si chiama il lembo sotto le stringhe?
- La linguetta.
- Be’?
- Il nome lo sapevo, soltanto che non l’avevo vista.
Padre Paulus fece il suo piccolo numero, buttandosi a corpo morto sulla scrivania e sussultando lievemente come se fosse in preda a una terribile angoscia.
- Non l’hai vista perché non sai guardare. E non sai guardare perché non conosci i nomi.
Tentennò il capo come per rimproverarmi aspramente, con un gesto teatrale, e si ritrasse dal piano della scrivania, lasciandosi cadere sulla sedia girevole e guardandomi di nuovo prima di fare un quarto di giro deciso e sollevare la gamba destra quel tanto che bastava perché il piede, o meglio la scarpa, trovasse una sistemazione sul bordo della scrivania, punta all’insù.
Una normalissima scarpa da prete nera.
- D’accordo, – disse. – Suola e tacco li conosciamo.
- Sì.
- E abbiamo identificato la linguetta e le stringhe.
- Sì, – dissi.
Delineò con il dito una striscia di pelle che attraversava il bordo superiore della scarpa e scendeva sotto la stringa.
- Cos’è? – chiesi io.
- Dimmelo tu. Cos’è?
- Non lo so.
- È il risvolto.
- Il risvolto.
- Il risvolto. E questa sezione rigida sopra il tacco. Questo è il rinforzo.
- Questo è il rinforzo.
- E questo pezzo a metà tra il risvolto e la striscia sopra la suola. Questo è il dorso.
- Il dorso, – ripetei.
E la striscia sopra la suola. Quello è il guardone. Ripetilo, ragazzo.
- Il guardone.
- Lo vedi, come restano nascoste le cose di tutti i giorni? Perché non sappiamo come si chiamano. E l’area frontale che copre il collo della scarpa, come si chiama?
- Non lo so.
- Non lo sai. Si chiama tomaia. Tomaia.
- Ripetilo.
Tomaia. L’area frontale che copre il collo della scarpa. Credevo di non dover imparare le cose a memoria.
- Sono le idee, che non devi imparare a memoria. E non prenderci troppo sul serio quando arricciamo il naso di fronte all’apprendimento a memoria. La ripetizione a memoria aiuta a costruire l’uomo. E la stringa la fai passare attraverso che cosa?
- Questo dovrei saperlo.
- Certo che lo sai. I buchi su entrambi i lati e sopra la linguetta.
- Non mi viene in mente la parola. Occhiello.
- Forse ti lascerò vivere, dopotutto.
- Gli occhielli.
- Sì. E il rivestimento metallico su ciascuna estremità della stringa.
Diede un colpetto all’oggetto in questione con il dito medio.
- Questo non lo saprei neanche tra un milione d’anni.
- L’aghetto.
- Neanche tra un milione d’anni.
- Il puntale o aghetto.
- L’aghetto, – ripetei.
- E il piccolo anello di metallo che rinforza il bordo dell’occhiello attraverso cui passa l’aghetto. Stiamo facendo la fisica del linguaggio, Shay.
- L’anellino.
- Lo vedi?
- Sì.
- Questa è la guarnizione, – disse.
- Oddio, ragazzi!
- La guarnizione. Imparala, conoscila e amala.
- Sto andando fuori di testa.
- Questa è la conoscenza arcana definitiva. E quando porto la scarpa dal calzolaio e lui la mette su una forma per fare le riparazioni, un blocco di legno a forma di piede. Come si chiama?
- Non lo so.
- Si chiama semplicemente forma da scarpa.
- Mi si sta spaccando la testa.
- Le cose di ogni giorno rappresentano la conoscenza più trascurata. Questi nomi sono vitali per il tuo progresso. Cose quotidiane. Se non fossero importanti, non useremmo una parola così splendida di derivazione latina. Ripetila, – mi intimò.
- Quotidiano.
- Una parola straordinaria che suggerisce la profondità e la portata del luogo comune.
II colletto bianco pendeva allentato sotto il pomo d’Adamo e la pelle sulla gola stava diventando floscia e fibrosa, e sembrava coglierlo impreparato, la vecchiaia, che arrivava in ritardo ma in fretta.
Mi misi il giubbotto.
- Voglio darti un libro, – disse padre Paulus.
Le sue mani però erano ancora giovani, di un morbido rosa infantile. In un angolo del tavolo c’era una scacchiera, con i pezzi schierati in bell’ordine sui due lati.
- Vieni a Upper Red domani e vedrò di trovartelo.
Upper Red era la residenza del corpo insegnanti. Al Voyageur gli edifici portavano il nome di località famose – laghi, città, fiumi, foreste. Non venivano battezzati col nome di santi, teologi o martiri gesuiti. I gesuiti, secondo Paulus, erano stati trattati così brutalmente in tanti posti per i loro tentativi di convertire e trasformare – decapitati in Giappone, sventrati nel Corno d’Africa, mangiati vivi in Nord America, crocefissi in Siam, sventrati e squartati in Inghilterra, gettati nell’oceano al largo del Madagascar – che i fondatori del nostro piccolo college sperimentale avevano pensato di risparmiare al paesaggio alcuni degli emblemi più sanguinosi della storia dell’ordine.
- A proposito, Shay.
- Sì, – dissi.
- È possibile che ieri ti abbia visto insieme a quel gruppetto che firmava una petizione a favore del senatore McCarthy?
- Sì, c’ero anch’io, padre.
- A firmare la petizione.
- Sembrava okay, – dissi.
Lui annuì, guardando un punto sopra la mia testa. – Lo sai perché il senato lo ha condannato?
- Non lo so, ma gli altri stavano firmando, – dissi. – Alcuni dei sudamericani, – dissi con un filo di disperazione, sapendo quanto doveva sembrare stupida una risposta del genere, ma pensando che fosse comunque un modo per giustificarmi.
- Così hai firmato anche tu. Gli altri stavano cagando, padre.
Quindi ho cagato anch’io.
Mi oltrepassò con lo sguardo, facendo un ragionevole cenno d’assenso, e io mi girai per andarmene.
Per un po’ camminai avanti e indietro attraversando la piazza nella tempesta di neve. Poi tornai nella mia stanza e mi liberai del giubbotto. Volevo cercare le parole sul dizionario. Mi tolsi gli stivali e lanciai il berretto sul lavandino. Volevo cercare le parole. Volevo cercare velleità e quotidiano e impararle a memoria, queste stronze di parole, una volta per sempre, impararne l’ortografia, la pronuncia, ripeterle ad alta voce, sillaba per sillaba – vocalizzare, produrre suoni vocali, emettere suoni, pronunciare le parole per quello che valevano.
Questo è l’unico modo al mondo di sfuggire alle cose che hanno fatto di te quello che sei.
Fine