Il vecchio sporcaccione e la verginella

Da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

Lucian Freud - donna nuda 1985

sconsigliata la lettura ai minori di 18 anni

Pino lo stronzo

Un mio amico, che si chiama Pino, è alto ma molto alto, due metri e dieci, un bronzo di Riace quasi, è giovane e legge regolarmente Tex e Dylan Dog e sa tutte le storie a memoria con una precisione fideistica da far invidia ai cardinali tutti e al Papa pure, e c’ha l’apparecchio per i denti – un ferro che gli prende tutti i denti storti e che pare un morso, un vero e proprio strumento di tortura -, musica ne ascolta poca, solo Beethoven ed Eminem perché dice che sono simili (nessuno ha mai capito perché e nessuno mai gl’ha chiesto che cos’avrebbero in comune i due per una questione di… di paura), però questa estate faceva un caldo così forte che l’asfalto si scioglieva sotto i piedi, tant’è che pure Gesù Cristo (lui abituato a cose semplici semplici come camminare sull’acqua) s’è bruciate le palme dei piedi cercando di fare dieci metri soltanto per attraversare una strada da semaforo a semaforo e adesso cammina sì ma coi piedi bendati che a guardarlo bene con quella barba lunga e gli occhi spiritati e i piedi nelle garze lo capisci subito che è uno un po’ tanto tocco di testa per cui si può solo provare o una profonda paura o una fideistica compassione umana, e così il mio amico, come tutti noi del resto, durante le ore più calde se ne stava barricato in casa sicuro che nulla di male gli sarebbe potuto accadere, ma si sbagliava di grosso, difatti un giorno gl’ha preso un male alle budella che ha dovuto tapparsi in bagno di corsa, c’è rimasto dentro
per un’ora buona, fino a quando i genitori sono stati costretti a buttar giù la porta, e così hanno trovato il figlio, Pino grande e grosso, seduto sulla tazza di ceramica ma accasciato, la madre ha gridato, il padre, uomo con un po’ più di spirito rispetto alla fragile moglie che pesa solo quanto una vacca sacra denutrita con l’aggravante d’esser nata in un’India dove l’erba manco a pregare, ha chiamato il 118, così l’ambulanza è arrivata e i paramedici hanno caricato Pino su una barella che per tenerla su ci son voluti non quattro barellieri ma quattro più quattro; tuttavia la cosa buffa non è stata vedere Pino col culo all’aria mentre i paramedici cercavano d’infilarlo dentro l’ambulanza e nemmeno è stato divertente vedere la curiosità altrui affacciata a finestre e balconi, e sapete perché?, perché nella tazza di ceramica c’era uno stronzo grande e grosso come mai se n’erano visti prima d’allora, roba da primato mondiale, una cosa enorme, così grande che non pareva possibile fosse opera d’un essere umano, era come il tronco d’un pino cacciato nel cesso, una cosa assurda e puzzolente ma che stava dritta dritta, uno stronzo che aveva una sua identità e un suo orgoglio, e quello stronzo è stato un vero evento nella vita di segaiolo di Pino che per cagarlo ha avuto un calo di pressione e tre punti sulla fronte avendola battuta contro la bombola d’ossigeno dell’ambulanza; ma oggi Pino non ha alcun segno in fronte, e dopo che in ospedale ha potuto finalmente pulirsi il culo, una volta tornato a casa ha immortalato lo stronzo con un bello scatto, no, non uno scatto, ma tutta una serie di fotografie che non manca di mostrare con orgoglio a ogni nuovo amico che si fa, che ha la sfortuna d’incrociare Pino oramai da tutti ribattezzato Il Grande Stronzo.

La trans shakespeariana

Quando m’affacciavo dalla finestra, Giulio era lì, con la fronte liscia baciata dalla prima luce del mattino e le palle ben rasate al vento. Mi salutava tutto allegro Giulio: non era mica un musone, e io gli rispondevo con uguale allegria, forse solo un po’ esagerata. Ma Giulio mi piaceva proprio tanto: era uno alla mano, cioè non era uno di quelli che se la tiravano. Dopo i saluti si metteva davanti allo specchio completamente nudo. Davanti allo specchio, prima del trucco e della parrucca, era ancora Giulio quindi uno, poi dopo diventava un gran bel tocco di femmina. Però allo specchio, senza trucco, era soltanto Giulio, io penso che si possa dire così.

In giro era per tutti Giulia: la parrucca bionda, bellissima che per comprarsela Lino aveva staccato così tanti di quei pompini che manco Proserpina, il volto ben rasato con un accenno di trucco non troppo pesante né volgare, vestita con gusto a fiori e gonna lunga fino al ginocchio, in strada faceva girare la testa a più d’un ragazzetto pederasta o etero che fosse. Giulia era proprio figa e non fosse stato per le palle me la sarei fatta: lei lo sapeva che a frenarmi erano le palle e ci rideva su, un sorriso bianco e sincero, che riempiva con l’assicurazione che se l’era ben rasate, che erano proprio due olive dure. Una volta m’ha cacciato la mano sotto alla gonna e mi son ritrovato in mano appunto due olive lisce lisce e solo un poco mosce. Non ce l’aveva duro. Ma io sì. Però non ce l’ho fatta lo stesso. Però le gambe gliel’ho accarezzate, belle lisce, di velluto la pelle nelle zone più nascoste. Sì, m’aveva proprio eccitato con il suo dolce calore. Non fosse stato per quelle due olive… Giulia me lo diceva spesso che doveva decidersi a farselo tagliare, che oramai non era più il momento d’indugiare, perché o adesso o mai più, per via dell’età: era solita ripetere che non voleva arrivare ai quaranta con quel campanello fra le gambe.

Ci incontravamo spesso, spesso solo per parlare del più e del meno cioè di sesso: Giulia diceva sempre che le donne godono di più, molto di più d’un maschio, io ribattevo che erano stronzate ma con aria così poco convinta che Giulia scoppiava subito a ridere simulando una sorta di muliebre orgasmo. Quand’era Lino assomigliava un po’ a Robbie Williams, un po’ tanto a dire il vero, cosicché non gl’era difficile attirar l’attenzione di maschi e femmine: se lo sarebbero fatto, questo è il punto, se lo sarebbero fatto con o senza parrucca. Era un figo pure nelle vesti di Giulio. Era una bestia, un vero animale da monta. Non gli potevi resistere. Non è che come Giulio fosse effeminato o che altro: ma ogni poro della sua pelle trasudava bestialità sessuale, quella che non ti lascia via di scampo. Avevo visto più d’una donna mangiarsi le unghie per Giulio, e quelle che lo sapevano che era Giulia (o anche Giulietta) se lo sarebbero fatto in entrambe le salse, sia nelle vesti di maschio che in quelle di femmina allupata e puttana. Stare accanto a Giulietta era un vero spasso: non aveva mai la bocca vuota, era un’enciclopedia vivente di pettegolezzi e di sesso, ma non si pensi per questo che fosse volgare, tutt’altro, era disarmante tanta la sua gentilezza. Lo sapevo, nel mio intimo lo sapevo che il primo pompino me l’avrebbe staccato Giulietta quando avessi deciso d’andare con un travestito: solo non volevo ammetterlo.

Accadde poi un giorno che alla finestra non lo vidi: Giulio ci stava sempre, pure con la neve, era metter in mostra la sua femminilità repressa mostrarsi alla finestra come una Giulietta shakespeariana tradita nervosa pettegola… affascinante. Lo venni a sapere nel pomeriggio. Mi telefonarono. Appena lo seppi non sapevo se piangere, non sapevo più niente: so solo che corsi in ospedale convinto di dovermi preparare al peggio, ma Giulietta-Giulio m’accolse con il solito sorriso. A parte un occhio pesto non era brutto, e io che pensavo l’avessero pestato a sangue, e invece no. Ringraziai dio e subito lo baciai con le lacrime agl’occhi. Mi raccontò che era stato avvicinato da due che l’avevano bello duro e che si pensavano non ce l’avesse la sorpresa. Ma quando gl’avevano scoperto il campanello fra le gambe non l’avevano presa troppo bene, e così, oramai compromessi, l’avevano violentata a Giulietta per ore e ore, e poi le avevano portato via tutto l’incasso della nottata, ma il peggio era arrivato con quel pugno che adesso stava sul suo occhio. Non so perché ma mi venne da piangere. Eravamo soli in camera.

Quando uscii decisi che dovevo trovare assolutamente delle rose, delle rose fresche e belle rosse, non di quelle che ti rifilano i fiorai e che sembrano strappate dalle tombe d’un cimitero. No, io volevo delle vere rose rosse, fresche e giovani. Girai in lungo e in largo per trovarle le rose: alla fine le rubai, già, proprio così. Le rubai: erano in un giardino, proprietà privata, m’intrufolai dentro, scavalcai la recinzione e spogliai quel piccolo eden del suo rosso. Confezionai il più bel mazzo di rose che si possa desiderare. Era il minimo che potessi fare per quella gioia che Giulia m’aveva strappato dalle viscere.
Ancor oggi m’affaccio e trovo Giulietta con la fronte baciata dal primo sole e le palle rasate di fresco al vento mentre canta un’aria di Giuseppe Verdi: lo saluto con una strizzatina d’occhio, accenno Sympaty for the Devil degli Stones e poi vado…  vado per i cazzi miei.

Lo sporcaccione e la verginella

Mi dicono sempre tutti che sono semplicemente un vecchio sporcaccione, che non ho diritto a una femmina né all’amore. Mi guardo allo specchio, alla scheggia che è rimasta appiccicata al muro, e mando a ‘fanculo chi mi rivolge la parola tanto per masticarsi la dentiera che tiene in bocca. Però Angelina non è come le altre e con quelli che mi dicono vecchio non gli sta addosso più di tanto. E’ che è ancora una bambina: pochi giorni e sarà il suo diciottesimo compleanno. M’ha confidato d’esser ancora vergine. Me lo voleva pure dimostrare che l’imene era intatto. Le ho detto che non importava, che sicuramente l’aveva già preso in bocca e nel culo: Angelina non ha battuto ciglio però quel suo silenzio significava ch’era proprio come dicevo. Poi, un giorno è venuta da me e m’ha mostrato il sederino e m’ha implorato di dirle la verità, se si vedeva tanto che era stato usato. L’ho rassicurata: “Sei una bimba, lo sfintere è elastico ancora, non sembri una vecchia troia sfondata”: lei ha tirato un sospiro di sollievo e m’ha cacciato la lingua in bocca. Rimasi scioccato, o meglio senza fiato. E lei: “Il giorno che compio diciotto anni te lo faccio io il regalo!”
Non m’ero mai interrogato su cosa potesse significare quella promessa o minaccia che fosse. Poi, oggi, dopo neanche troppo tempo, ho scoperto cosa intendeva Angelina.
E’ venuta da me, con il suo vestito migliore, quello rosso che pare di seta e che quando non mette le mutandine le fascia con gentilezza i fianchi e il monte di Venere che t’immagini tutto anche se sei mezzo cieco. M’ha preso da parte e m’ha sussurrato qualcosa, ma con tono così basso che solo la sensualità del suo respiro era ben percepibile. Quelli del Centro Sociale non ci stavano proprio che Angelina mi desse attenzioni: erano crudeli, erano per i pogrom quelli lì, la Falce e il Martello erano quelli di Stalin, dell’Uomo di Ferro. Quelli del Centro erano pazzi, odiavano i fascisti ma anche i lenisti e gli anarchici: a me mi facevano stare in un angolo di quella casa occupata perché col tempo ero diventato la loro mascotte ma, a dire il vero, di un po’ tutta la borgata. Però non mi volevano bene: aspettavano solo che tirassi le cuoia per farsi una grossa risata, o che qualcuno mi spaccasse tutte le ossa. Dicevano che ero vecchio: a quarant’anni per loro ero da buttare. ‘Fanculo, gliel’avrò ripetuto non so quante volte, ma non è servito mai a granché. Poi Angelina ha compiuto i diciotto anni.
Io non capivo più niente: sentivo solo il suo profumo, quello di donna. M’ha preso per mano e m’ha accompagnato fuori.
“Dove andiamo?”
“Ti piaccio?”
Le feci cenno di sì con la testa. “Ed allora stammi incollato al culo e non fare domande sciocche.” Non me lo feci ripetere: il suo bel culetto era tutto quello che i miei occhi volevano vedere.
Li vedo ancora quelli del Centro con i grugni duri, bavosi di rabbia, mentre io e Angelina ci allontaniamo insieme. Oramai Angelina non è più una bambina, e un po’ mi dispiace, è una donna e vuole me, anche se non lo so perché mi sia meritato una simile fortuna. Non lo so. E non le credo quando me lo dice, non le credo perché è una donna, perché non è più una bambina: “Tu sei un poeta. Un tempo scrivevi poesie. Le ho lette tutte.”
“Era molto tempo fa. Pensavo non si trovassero più.”
”Ti sbagli. Sono in tante antologie. E poi ci sono le ristampe.”
”Bastardi. Non m’hanno mai pagato un centesimo…”
“E tu perché non ti sei fatto più sentire?” Era un rimprovero. Me lo meritavo.
Angelina era fantastica, l’invidia e la gelosia fattesi carne da mordere.
Siamo andati in un alberghetto da due tacche, ha pagato lei la camera, siamo saliti su: giusto un letto, non c’era bisogno d’altro. Le ho sfilato il vestitino rosso, con poesia, piangendo di tenerezza per tutta quella tenerezza che così, con amore, mi veniva data senza che io avessi fatto nulla per meritarla.
Era vergine. La verginità me l’aveva data tutta, tutta quella che importava era il suo dono per me, di lei Angelina oramai diciottenne e donna. Perché proprio a me una simile fortuna?
Ancora sudati, dopo averlo fatto fino a sfinirci nel sesso e nelle carezze, me lo disse: “Perché voglio che torni a scrivere poesie. Voglio che i miei figli un domani ti possano leggere. Non sei un fallito come credi e vogliono farti credere. Sei solo un poeta. E io sono semplicemente una puttanella che ha raggiunto la maggiore età. Una storia tutta sballata ma non sbagliata.”
Sapevo che non ci sarebbe stata una seconda volta con lei: tutto quello che aveva me l’aveva dato.
Non capisco perché l’abbia fatto, perché proprio a me abbia voluto concedere la possibilità di tornare ad essere. So solo che non ci vivo più assieme a quegli stronzi del Centro. Ho una Bic, una risma di fogli bianchi, e un appartamentino in affitto. Scrivo poesie, molte le pubblico sui giornaletti di quartiere, altre su riviste più grandi: qualche volta me le pagano. Scrivo di notte. Di giorno lavoro, mi arrangio, svuoto le cantine per pochi dané, ma faccio un po’ di tutto, dall’imbianchino al lavavetri purché alla sera abbia qualche spicciolo e la possibilità di tornare a scrivere. Tutta colpa di Angelina.

800 pompini

M’era stato chiesto di partecipare a una lettura in pubblico, o meglio a una presentazione: un autore, o meglio un esordiente doveva presentare il suo primo romanzo presso una rinomata libreria facente parte d’una catena. In realtà l’esordiente non era affatto tale: alle spalle aveva già diversi saggi, tutti più o meno snobbati dalla critica e dal pubblico ma che gl’erano stati comunque pubblicati perché noto uomo di legge, e adesso il primo sospirato romanzo all’età di sessant’anni. Nessuno si aspettava d’aver fra le mani un capolavoro e nemmeno un libro: tra le mani reggevamo il peso di ottocento pagine scritte fitte fitte, null’altro. Ma tutti o quasi sorridevano, come se il sorriso soffocato nell’ironia potesse essere una ricompensa sufficiente per l’esordiente che fingeva, con abile maestria, che tutti quei volti sorridenti fossero realmente lì per la sua opera, per quella sua fatica che gl’era costata una vita intera almeno a sua detta. E che invece era costata un mese di lavoro a cottimo a un ghost writer che s’era fatto le notti per inventarsi ottocento pagine di panzane che poi l’Avvocato aveva riletto rivisto e corretto in fase di bozza per poi infine apporci la sua firma. Che non gli sorridevo l’Avvocato l’aveva notato subito: e con lo sguardo mi rimproverava, quasi mi diceva “Ma non sei contento, c’hai pure la copia gratis!” Gliel’avrei ficcata in una tempia quella copia, se solo avessi potuto: una pallottola di ottocento pagine non gl’avrebbe rovinato di certo il cervello. Peccato che poi avrei scontato il resto dei miei giorni nei gironi di San Vittore a prenderlo in culo e a scopare cessi puzzolenti di piscio e merda. Non valeva la pena darsi pena d’affrontare un simile scotto per la soddisfazione sola. Avevo bisogno d’un incentivo che fosse di più.
La sala era piena di troioni sulla quarantina e almeno due lifting e liposuzioni. Se ne stavano lì, a sorridere, loro che di libri mai uno in vita con la scusa che gli autori sono meglio a letto purché poi non russino e non abbiano la pretesa d’un gesto d’affetto o di dormire a cucchiaio fino a fare l’alba.
L’Avvocato parlava: il pubblico fingeva attenzione, io non fingevo niente, mi limitavo a spiare i culi davanti a me e quale fosse messo meglio. Tutte le femmine lì riunite stavano in equilibrio su un tacco dodici, i pachidermi pure, anche se sarebbe più giusto dire che si reggevano in bilico. Non ce la facevo a sentirlo quel gradasso: ero pentito come Dio dopo aver creato Adamo ed Eva, ed ero pronto a battermela, non avrei concesso a quel fanfarone la possibilità d’una falsa redenzione con la storiella del peccato originale. Insomma me la stavo per battere quando mi sentii afferrare per la manica della giacca: “Non se ne vada, la prego. Anch’io non ce la faccio più.” Mi voltai verso la donna: non era male, era forse la sola quarantenne con un solo lifting e il culo a mandolino, il migliore di tutta la sala. “Non se ne vada”, m’implorò di nuovo: “glielo prendo in bocca, subito… mi raggiunga alla toilette…”. E così dicendo si staccò dal gruppo per avviarsi verso i bagni: nessuno si curava dei suoi passi, che eppure risuonavano sul pavimento, però le finte risate dei convenuti erano più forti.
La raggiunsi e non mi deluse: subito mi tirò giù la lampo per inghiottirselo nella bocca. Incredibile come quella bocca, apparentemente piccola e a cuore, potesse essere vorace: me lo succhiò in una maniera strana, come mai un’altra prima, con fare sincopato, con ritmo jazzato. Fu il miglior pompino della mia vita. Quando poi la sentii che ingoiava le buttai un’occhiata sulla faccia che mi guardava con occhi lucidi di bramosia, quasi commossi. Rischiai di svenire: eiaculai a lungo, e dopo neanche un altro minuto che me lo teneva in bocca, lasciando che la sua lingua toccasse la punta del glande, di nuovo un getto forte che m’era una novità pure per me. Le imbiancai il volto, poi lei subito me lo prese tutto in bocca, e di nuovo ingoiò come fosse la cosa più naturale del mondo. Sapevo d’aver dato il meglio di me, ma non potevo lasciarla andare senza prima averglielo messo in culo. La feci girare, lei non oppose resistenza, capì subito: lasciò cadere le bianche mutandine a terra mentre s’alzava le gonna sin su i dolci fianchi. Per riprendermi un poco, cominciai a leccarle la passerina, ma sempre con più accanimento il roseo buchetto prima che venisse penetrato dal mio pene. Le leccai lo sfintere a lungo con la punta della lingua, inserendola dentro quanto più potevo, assaporando il gusto agreste di quella femmina: poi la penetrai, un sol colpo, a fondo, le andai dentro e quando le venni dentro per la terza volta fui inondato da una luce così tanto intensa che pensai d’esser ormai diretto verso la fine del tunnel della morte. Non avevo mai orgasmato in maniera tanto violenta e completa. Fu la prima e l’ultima volta che vidi quella luce fantastica calda avvolgente rassicurante, per certi versi materna e paterna.
Quando tornammo tra gli altri, l’Avvocato non aveva ancora smesso di cianciare. Nessuno lo ascoltava. I sorrisi di tutti erano davanti a quell’uomo come l’atto ineluttabile d’una paresi sociale. Finalmente l’Avvocato chiamò la moglie a tenergli compagnia: fu solo allora che la scoprii la verità. Lei sorrise al pubblico ma senza dire una parola. Lasciò che il marito le cingesse la vita. Tutti applaudirono reggendo il pesante volume come potevano tra un battito di mani e un altro. E anch’io applaudii, a lungo.

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