Il vedovo (1959)

Creato il 03 marzo 2013 da Af68 @AntonioFalcone1

Milano. Il commendatore Alberto Nardi (A. Sordi), proprietario di una fabbrica d’ascensori che non naviga in floride acque, vive al’ombra (e sulle spalle) della consorte Elvira (Franca Valeri), abile invece nell’amministrare il proprio consistente patrimonio e gestirlo in varie attività, oltre a godere di un certo prestigio imprenditoriale.
Stanca di rimediare agli errori del marito (l’affetto coniugale è monetizzato in 70 milioni, elargiti in cinque anni di matrimonio), la donna rifiuta la firma che consentirebbe al suo “cretinetti” di ottenere il finanziamento dalla banca, utile per avere un po’ di respiro, oberato com’è da cambiali e scadenze, visto che il gioco dell’imprenditore navigato prevede anche il mantenimento dell’amante Gioia (Leonora Ruffo) e relativa famiglia (la madre e due sorelle).
Sopraggiunge in tempo utile un incidente ferroviario in cui è coinvolta l’amata Elvira, data per morta, per cui, soffocando il dolore, il nostro ora può pensare in grande, ma il destino gioca strani scherzi e non ammette intermediari …

Alberto Sordi e Franca Valeri

Diretto da Dino Risi, anche sceneggiatore ( insieme a Rodolfo Sonego, Fabio Carpi, Dino Verde e Sandro Continenza), Il vedovo rappresenta l’incontro, nell’ambito della commedia all’italiana, tra un’attenta, graffiante, satira di costume e l’ humour nero, cinico sino al midollo, di derivazione britannica, una mediazione non sempre riuscita in tutto l’arco della narrazione, lambendo i confini della farsa, ma complessivamente valida, vuoi per l’abile regia, vuoi per le ottime interpretazioni attoriali, proprie di tutto il cast.
Risi concretizza la sua capacità, espressa a livello antropologico, di rappresentare le contraddizioni dell’Italia in preda all’euforia del boom economico, dove l’elemento affettivo dei rapporti umani inizia ad essere oggetto di mercificazione, alla stregua di qualsiasi bene materiale.
Viene quindi rappresentata la contrapposizione tra una “spontaneità” imprenditoriale arrivista, immorale, riproposizione dell’ antica arte d’arrangiarsi, ed una mentalità freddamente industriale, che non le è da meno, ma vincente, in quanto coerente con i nuovi valori e i mutati comportamenti sociali in atto, tra accumulo di ricchezza ed ostentazione di sicurezza finanziaria.

Sordi e Leonora Ruffo

Il regista asseconda toni grotteschi e caricaturali, ora pessimistici, ora sarcastici, ben sostenuto da Sordi, abile nel rappresentare la figura di un uomo moralmente meschino, vittima della sua megalomania ed incapace di venire a patti con se stesso, riconoscendo i propri limiti ed errori.
E’ una figura maschile certo debole, a cui fanno buona compagnia il marchese Stucchi, collaboratore affettuosamente servile, già all’epoca figura di gentiluomo d’altri tempi, in lotta tra moralità e sopravvivenza (un pregevole Livio Lorenzon), lo zio (Nando Bruno), il primo finanziatore, che gli fa d’ autista, per finire con l’inetto ingegnere tedesco Fritzmayer (Enzo Petito), tutti messi in ombra ben presto dalle interpreti femminili. La splendida Elvira/Valeri, occhi gelidi e ghigno beffardo, personalità da vendere e gran senso pratico, Gioia/Ruffo, amante in carriera la cui apparente ingenuità è integrata a dovere dalla scaltra avvedutezza della madre (Nanda Primavera), sono personaggi che denotano una notevole attenzione nella definizione delle loro diverse caratteristiche, già in fase di scrittura, intuizione concreta capace di offrire sapidi ritratti, andando al di là delle consuete caratterizzazioni.

Sordi e Livio Lorenzon

Difficile dimenticare, o non apprezzare ancora oggi, varie scene (il piano sequenza iniziale, la narrazione del sogno di Alberto a Stucchi, la morte della moglie, cui fa da efficace contraltare il cinico finale; il ritorno della “morta” al grido di “cosa fai, cretinetti, parli da solo?”, interrompendo i sogni del “vedovo”) o battute che lasciano il segno (tra le tante, la risposta del commendatore all’invito di piangere come utile sfogo dopo la ferale notizia, “magari, non ci riesco”; “per carità signora, diciamo che è stato il destino”, rivolta da Stucchi ad Elvira, che lo ringrazia per averle fatto perdere il treno poi deragliato), sino a quella che chiude il film mentre sopraggiunge il valido motivo musicale del maestro Armando Trovajoli, che ci ha lasciato nei giorni scorsi.

Pur con qualche lungaggine e il suddetto stridore tra due diversi tipi di comicità, Il vedovo è una valida testimonianza della capacità che aveva la nostra commedia di descrivere la realtà, sperimentando diversi linguaggi cinematografici, spesso prendendo spunto da un episodio di cronaca (il caso Fenaroli) su cui imbastire una valida sceneggiatura, potendo poi fare affidamento su un’accorta direzione nella messa in scena.
Non gli si può poi negare una certa attualità, immaginando la vicenda ai giorni nostri, e del resto ne è in cantiere un remake, in uscita ad ottobre, per la regia di Massimo Venier, con Fabio De Luigi e Luciana Littizzetto protagonisti principali, che dal titolo, Aspirante vedovo, sembra però già voler prendere le distanze dall’originale o, comunque, evitare confronti, i quali saranno, volenti o nolenti, inevitabili. Aspettiamo e vediamo.


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