Uno lo tiene come se fosse un piattino riempito a raso di latte, con entrambe le dita che ne afferrano i bordi, e lo muove tentando di mantenere l’equilibrio in modo da non versarne il contenuto. Come quei giochi in cui occorre far percorrere a una o più palline un labirinto e farle transitare da un punto a un altro solo inclinando la superficie da percorrere. Due, seduti di fronte, li stanno utilizzando collegati in qualche modo perché condividono lo stesso passatempo che si capisce solo da fatto che lo descrivono a una coppia di amici che, saliti all’ultima stazione e cercando un posto libero, stanno attraversando il corridoio tra i sedili e transitando di lì. Se non ho capito male il divertimento consiste nel realizzare disegni contestuali a un concetto da far indovinare all’avversario o compagno di squadra, perché non mi è chiaro se bisogna arrivare alla soluzione con il numero minimo di scarabocchi possibili o al contrario sviarlo dalla risposta esatta con rappresentazioni inerenti il soggetto ma comunque difficili da mettere in relazione. Poi c’è uno che segue i due di cui sopra perché quello che ha a disposizione lui è un videogame molto meno divertente perché ci sono delle bolle da spostare, lanciare, e scoppiare non si sa bene in che modo, poi lo vedo che però fa tesoro del racconto e probabilmente sogna tempi morti meno noiosi con quel sistema lì delle associazioni di idee, perché puoi partecipare anche se viaggi da solo perché online qualcuno si può collegare dall’altra parte del mondo e sfidarti. Il problema, a detta degli esperti, è se l’età non corrisponde, nel senso che se il sistema ti abbina random a un bambino consente, a detta loro, una vittoria assicurata. Quello davanti a me invece, a proposito di immaturità, pur avendo superato abbondantemente la ventina legge un fumetto di eroi che risolvono casi del mistero, quelli che una volta per dire si leggevano alle medie. Lui ce l’ha collegato agli auricolari e, a dimostrazione che la musica che si percepisce dagli altri attraverso cuffie scadenti o quando li senti transitare con l’autoradio a palla è cento volte su cento musica di merda, sta ascoltando uno di quei pezzi metal con la cassa in trentaduesimi che sembra una mitraglia sparata a velocità inumane e sopra la voce del demonio che si lamenta della sua cameretta con le pareti tinte di nero. Malgrado i suoi gusti, ha un aspetto sereno e pacioso, con un taglio di capelli da ragioniere e un ciuffo di peletti biondi sul mento, ma il tutto in un contesto molto ordinato e distinto e incorniciato da una camicia sollo il gilet. Infine, e si trova proprio al mio fianco, c’è uno che lo sta usando come e-reader per leggere qualcosa scritto in font size 2 e rotti, una dimensione che trasforma anche il testo più interessante in una riga sottile nera, una serie di linee parallele e uniformi che passi che non si riescano a distinguere da dove sono io, ma non credo nemmeno sia possibile decifrarle tenendo lo smartcoso come fa lui, praticamente davanti alle pupille con l’occhiale sollevato come fanno le persone che vedono sfocato da vicino. Ecco, tutto questo per dire che su otto persone nella stessa linea di posti a sedere su un treno siamo solo in due a non tenere in mano un dispositivo elettronico. Io, che non faccio testo e non solo perché non ho carta e penna sottomano, e un signore di mezza età vicino al finestrino che cerca di dormire malgrado tutto quel baccano digitale.
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