Giuseppe si prende un calcio.Poi un altro.Cerca di non perdere l’equilibrio.Gli finiscono sulla schiena ottanta chili di carne parlante.Un altro calcio, sporco di fango.Affonda le unghie in una superficie morbida.Si aggrappa ma non resiste al peso su di sé e scivola indietro.Annaspa, sacrifica il corpo sotto di sé e lo trasforma in trampolino per guadagnare metri.Comincia a comprendere il gioco sporco del perdurare.Deve tornare a concentrarsi.Schiva un paio di pedate ma ne accusa una terza in piena faccia.Il sapore di fango penetra tra i colletti dei denti lasciando un retrogusto di ferro.Pelle emaciata e muscoli stanchi, non si arrende.Schiaccia corpi su corpi, stringe tra le dita lunghi capelli sporchi, si illude che tutto sia lecito per raggiungere per primo i propri aguzzini, che lo premieranno.Metri che sembrano chilometri di schegge di vetro nella carne. Nel suo gesto agonistico c’è tutta la sua volontà di sopravvivere, a qualunque costo.A qualunque posto.Non si chiede nemmeno il perché, mentre graffia pelle chiara come la sua e lascia la sua firma indelebile sulla sopravvivenza di qualcuno come lui.Gli stessi segni che ha lui sulla schiena, sulle braccia, tra i peli del petto.Non si ricorda più quando tutto è cominciato, quando ha iniziato a prendere calci, ne è passato di tempo da quando non era capace di riceverli e ora ha imparato a sopportarli.Gli hanno insegnato a sopportare i calci.Gli hanno insegnato a darli quando serve.
Ora è quasi un professionista della piramide.Quasi.E come spesso succede, arriva sul vertice, ma non è il primo.Un piede a martello in pieno petto lo rispedisce ai piedi della piramide.Giuseppe individua i primi gradini e ricomincia.Uguale a se stesso.Uguale a ogni gesto che ha già fatto ma che non ha mai capito.
Fa.Ro.