La sentenza continua a risultarci incongruente con gli elementi in possesso del tribunale e, soprattutto, del tutto incompatibile con la persona di Don Marco Baresi; con le sue caratteristiche, umane e religiose, con tutta la sua storia, di uomo e di prete. Ciò che è accaduto dimostra ampiamente, purtroppo, quanto possa rendersi talvolta impossibile per un tribunale servire la verità oggettiva. La nostra non è un’accusa alla Giustizia. Pensiamo che si possa prendere serenamente atto dell’esistenza di ovvî limiti umani e strutturali; inevitabili nell’atto del giudicare. Tuttavia, mentre il processo di primo grado aveva incontrato comprensibili difficoltà nel fare luce su accuse e fatti così “stravaganti”, il processo d’appello godeva di ottimi elementi oggettivi per dimostrare, finalmente, l'innocenza di don Marco o, per lo meno, togliere la condanna ad un uomo vittima di prove opinabili". E mentre gli amici di don Marco (guarda qui il loro video di presentazione in una festa di San Zeno Naviglio) continuano la loro battaglia, il vescovo di Brescia, Luciano Monari (nella foto sopra con il Papa), ha indirizzato ai sacerdoti bresciani una lettera dura nei tratti, ma sincera nella convinzione che nella vergogna si può solo rinascere.
Il Giovedi santo il vescovo Luciano aveva invitato i sacerdoti nella sua omelia (leggila qui) ad un profondo esame di coscienza sulle ragioni delle loro scelte sacerdotali. Parole pesanti su una missione minata dagli scandali nei quali il comportamento deviato di pochi, rischia di travolgere tutti. E anche oggi il vescovo di Brescia, in una diocesi colpita al cuore da una sentenza che coinvolge un sacerdote la cui missione era quella di educatore e formatore del clero del futuro non si risparmia: "Carissimi sacerdoti - scrive -, il reato per cui un tribunale in prima istanza e poi in appello ha condannato don Marco, un prete del nostro presbiterio, è tra i più odiosi. Anzitutto perché riguarda abusi su minori, e conosciamo bene quello che il vangelo dice su chi scandalizza i piccoli. In secondo luogo perché l’abuso sarebbe stato commesso da un educatore al quale il minore è affidato perché gli trasmetta il meglio del patrimonio che l’umanità ha saputo raccogliere attraverso i secoli; saremmo quindi di fronte a un tradimento grave della fiducia. Infine perché sarebbe stato commesso da un prete che, per missione, deve essere segno della presenza e strumento dell’azione del Signore Gesù che è passato facendo del bene, che non ha usato inganno e violenza con nessuno. Per tutti questi motivi è difficile pensare a qualcosa di più grave".
Continuando a sperare che don Marco sappia dimostrare finalmente l'innocenza che ha sempre proclamato, il vescovo non nasconde che: "ho a che fare con una precisa sentenza di condanna che inevitabilmente ricade su di me e su tutto il nostro presbiterio e ci chiede una risposta. Quale? Soffriamo inevitabilmente la vergogna per un fatto grave che ci viene imputato e la vergogna è uno dei sentimenti più difficili da sopportare. Abbiamo il timore che la gente possa farsi di tutti noi un’opinione negativa, che ci condanni impietosamente e questo ci brucia. Sento dolorosamente questa vergogna attaccata alla pelle. Ma, paradossalmente, sono convinto che mi possa fare bene; mi libera da qualche linea di vanità o di orgoglio; mi costringe a eliminare le mie illusioni, a confessare il mio niente e questo non mi fa solo male. Anzi può diventare un percorso prezioso di purificazione e di libertà. "Perdere la faccia" è una delle sofferenze più umilianti; ma, se lo accettiamo davvero (il che non è facile!), rende liberi. Non abbiamo nulla da perdere; possiamo essere poveri cristiani senza pretesa e quindi senza timore alcuno".
Preti come poveri cristiani, come poveri peccatori con il loro fardello di credibilità minata, di coerenza sempre più messa in dubbio. Preti feriti da una Chiesa travolta dagli scandali, da una casa che vacilla. Secondo Monari è dalla consapevolezza della vergogna, che rinasce un uomo nuovo, un prete nuovo una Chiesa più forte perchè la Chiesa è qualcosa che prescinde dalle colpe degli uomini.
"Debbo riconoscere - riflette il vescovo di Brescia - di non essere un buon cristiano; ma posso proclamare che l’appartenenza alla Chiesa non mi ha reso falso o ambiguo, ma mi ha sempre aiutato a diventare più sincero e più autentico. Posso attribuire a me dei peccati; ma debbo riconoscere alla Chiesa il dono santo di Cristo e del vangelo. Per questo continuerò a essere nella Chiesa e a servire la Chiesa con gioia. Questa Chiesa di Brescia, dove il vangelo ha prodotto nei secoli, anche attraverso il servizio di tanti suoi santi preti, autentici frutti di bene. Mi vergognerò di me e dei miei peccati; ma non avrò mai da vergognarmi del vangelo e del suo insegnamento. Mi vergognerò per le incoerenze delle nostre comunità cristiane; ma non dovrò mai vergognarmi per lo Spirito che ci è stato dato e che fa di noi dei figli veri di Dio".
Parole che meritano rispetto (come, del resto, una sentenza pronunciata nel nome del Popolo italiano), parole di speranza di una comunità un tempo forte e potente che ora vacilla. Dal primo dei suoi presbiteri all'ultimo dei suoi fedeli.