Il villaggio. A 100 anni dalla nascita di Marshall McLuhan

Creato il 24 luglio 2011 da Fabry2010

di
Paolo Vidali



ANNIVERSARIO. A 100 anni dalla nascita, lo studioso della comunicazione si conferma profetico: ha rivelato come i mass media possono plasmare la società.
Marshall McLuhan ha creato definizioni ormai gergali dell’era attuale. Il mezzo è il messaggio: prima la tv e ora internet hanno cambiato il nostro modo di vivere globale.

Un po’ filosofo, ma anche linguista, sociologo, tecnologo, Marshall McLuhan, che oggi compirebbe cent’anni, fu personaggio eclettico, sfuggente agli schemi, creativo fino all’irrisione. McLuhan ha compreso il nostro tempo con una lucidità profetica. Fulminante inventiva teorica, ma anche attenzione a un oggetto prima disdegnato dagli intellettuali: i mass media. Mettere al centro il modo del comunicare, e in particolare quello della comunicazione alle masse, è stata la sua intuizione fondamentale. Ma non l’unica. Sono sue alcune immagini così felici da essere diventate gergali. Una delle più note è il villaggio globale, inteso come un sistema di vita e comunicazione in cui lo spazio si è ristretto, mettendo a portata di mano eventi e soggetti. Abbiamo assimilato a tal punto questa immagine da non accorgerci più della sua contraddizione: non può esistere un villaggio globale. O, se esiste, ciò avviene perché l’esperienza che facciamo degli altri attraverso i mass-media è talmente impoverita da poter diventare globale. Ma cosa rimane, al di là della chiacchiera, della conoscenza reciproca di chi abita lo stesso villaggio?
A McLuhan dobbiamo l’immagine della galassia Gutenberg, descrizione del modo in cui, dal Rinascimento, l’affermarsi della stampa a caratteri mobili ha messo a disposizione, a costi sempre più bassi, un mondo descritto come testo. Non si è trattato di un passaggio solo tecnologico. Il mondo come testo a stampa ha sostituito la cultura dell’oralità, cambiando nel profondo la nostra esperienza. La galassia Gutenberg ha imposto una comunicazione articolata e una sintassi complessa, che solo nella lettura diventa comprensibile. Ciò ha creato lo spazio per nessi logici più articolati. Ha messo il concetto astratto al posto del personaggio. Ha fatto così prevalere l’universale sul particolare, così tipico di ogni narrazione. Si affermano la logica, la filosofia, la scienza al posto del racconto, della testimonianza orale, del mito. Con la stampa nasce l’uomo moderno, come ancora oggi lo insegniamo a scuola, magari senza più viverlo a casa.

Già, perché nel frattempo, con il Novecento, la nostra cultura ha di nuovo cambiato pelle, perché ha cambiato tecnologia del comunicare. Sono nati quelli che McLuhan chiama i media elettrici, cioè il telegrafo, il telefono, la radio, la televisione. È avvenuta un’altra mediamorfosi, che ha cambiato nel profondo l’uomo contemporaneo, estendendo i suoi sensi, il suo sistema nervoso, il suo stesso corpo. Curiosamente alcuni caratteri dell’oralità sono riemersi: sintassi semplificata, contenuti sempre disponibili, eterno presente di ciò che viene registrato, dominio dell’occhio, tendenza allo stereotipo, mediatizzazione dell’esperienza. Il che significa che la natura di massa dei nostri media sta plasmando un nuovo tipo di uomo, o forse sarebbe meglio dire di spettatore o di consumatore.

Siamo massificati dai programmi, dalla pubblicità, dalla tv commerciale? No, dice McLuhan. Nella comunicazione non importa il contenuto, ma la forma. È questa l’intuizione centrale del suo pensiero: il medium è il messaggio. Come egli scrive nel suo libro più riuscito (Gli strumenti del comunicare, del 1964) il vero messaggio di un medium «è il mutamento di proporzioni, di ritmo, di schemi che introduce nei rapporti umani. È il medium che controlla e plasma le proporzioni e la forma dell’associazione e dell’azione umana. Le società sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione».

E oggi? McLuhan, morto nel 1980, non ha fatto in tempo ad assistere all’ultima mediamorfosi, quella di internet e della digitalizzazione dell’esperienza. La stanno raccontando i suoi allievi, primo tra tutti Derrick De Kerckhove, secondo il quale le tecnologie novecentesche come la fotografia, il cinema, il video, la radio, la stampa, sono tecnologie della memoria, in cui vale la ripetizione, il replay. Quelle digitali, invece, sono tecnologie dell’intelligenza, in cui vale la ricomposizione, la costruzione nuova con elementi vecchi, il remake. Nella grande convergenza che avviene nei nostri computer il mondo del testo, dell’immagine, del suono, della narrazione si intrecciano, si compongono e ricompongono a seconda dei nostri bisogni e soprattutto si personalizzano. I self-media digitali stanno sostituendo i mass-media del secolo scorso. Costruiamo e scambiamo una realtà mediata. Essa sta cambiando la nostra esperienza del mondo, ma soprattutto sta creando una nuova idea di mente e di coscienza. Se per McLuhan era il corpo a espandersi nel mass-media elettrici, per De Kerkhove è la mente e la coscienza a uscire dal Sé e a diventare condivisa. Con quali esiti è presto per dire. Pessimisti e ottimisti, apocalittici e integrati si alternano nel fornirci la visione del futuro che ci aspetta. Certo il mutamento tecnologico corre a una velocità molto maggiore dei nostri strumenti culturali per padroneggiarlo. Così, se ci chiediamo in che modo sta cambiando la nostra mente immersa nella Rete delle conoscenze, difficilmente troveremo nelle pagine di McLuhan delle risposte. Ma da lui — e questo è il suo contributo più importante — abbiamo appreso il problema. A ogni cambiamento di medium dominante, cambiano le persone. Ci servirebbe oggi anche solo un po’ della sua fervida intelligenza per capire come stiamo cambiando. Per lo più non lo sappiamo. E così corriamo il rischio di imbatterci nell’ultima irrisione. Come avviene allo spettatore raccontato nel film Io e Annie di Woody Allen: è in coda al cinema e cita McLuhan, per lo più a sproposito. E dalla fila esce un distinto signore che si avvicina per dirgli: «Sono Marshall McLuhan e lei non ha capito assolutamente nulla del mio lavoro».


da Il Giornale di Vicenza, Giovedì 21 Luglio 2011 CULTURA Pagina 48



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