Il vino, la politica e il consenso

Da Trentinowine

Qualche giorno fa, sulla scia della serata al Mas dela Fam dedicata al Pinot Grigio, un lettore mi scrisse: “Il Pinot Grigio è un partito..”. Vero: il Pinot Grigio è un partito. Anzi il vino trentino è un partito. E come tutti i partiti, almeno quelli di massa che hanno segnato la storia del Novecento, ha una sua classe dirigente, una sua ideologia, persegue degli obiettivi chiari e definiti, rappresenta interessi di classe, o di categoria, e raccoglie consenso. Soprattutto, da partito, raccoglie consenso; consenso funzionale al perseguimento degli orizzonti che si è dato.

La storia del vino-partito, in Trentino, comincia a prendere forma negli ultimi decenni del secolo scorso. Qui ci vorrebbe la memoria storica dell’amico e compagno Massarello, per scandire date, fare nomi e ricordare eventi significativi. Quindi lascio a lui il compito di approfondire questo aspetto. E io procedo per cenni. Negli ultimi decenni del Novecento il tessuto economico e sociale trentino legato alla vitivinicoltura subì una drastica modificazione genetica. Le grandi centrali cooperative, che allora non erano ancora così grandi, riuscirono ad affermare e a conquistare un ruolo egemone. Fino ad allora il Trentino vinicolo si reggeva su un delicato ma efficace equilibrio fra il mondo imprenditoriale privato (vinificatori, ma soprattutto imbottigliatori e commercianti) e quello cooperativo. Ad un certo punto questo equilibrio virtuoso si ruppe. Gli attori della libera imprenditoria privata furono fagocitati dalle centrali cooperative. In alcuni casi subirono una repressione condotta con strumenti che qualcuno non ha esitato a definire “cileni”. La partita fu vinta senza fare prigionieri dalla cooperazione e l’iniziativa privata fu ridotta ad campo desertificato dal napalm.

E’ con questo passaggio che in Trentino nasce il vino partito, quello che domina incontrastato la scena vitivinicola ed economica da tre decenni. L’obiettivo, per lo più raggiunto, fu quello di compiere una gigantesca, e progressista, operazione di redistribuzione del reddito a favore del mondo contadino. Per raggiungerlo furono adottati alcuni strumenti efficacissimi. Innanzitutto, il concetto di vino. I contadini, forse per la prima volta, impararono che le uve, e quindi il vino, dovevano essere considerati esclusivamente come merce e come bene fungibile. Nel linguaggio di oggi si parlerebbe di wine commodity. Per fare questo era necessario concentrarsi esclusivamente sulle varietà viticole, trascurando, anzi ignorando, il territorio. Perché il territorio, e la sua ulteriore declinazione in terroir, sono concetti complicati, difficili, ingombranti. Non si prestano ad essere tradotti in merce immediatamente fruibile e fungibile, non sono adatti ad essere inseriti efficacemente in un processo industrialistico spinto, che si sia dato tempi accelerati per portare a termine un’operazione massificata di redistribuzione  del reddito. Il concetto di varietà, al contrario, sì. Perché consente un’infinità di applicazioni e di manipolazioni, perché descrive la visione di una merce estremamente fungibile e adattabile ad uno scenario mercantilistico internazionale che muta rapidamente. Le Doc varietali Trentino, nacquero sulla base di questo ragionamento, che è anche un assioma, industrialista e mercantilista. Ma anche progressista.

Come tutti i partiti, anche il vino-partito ebbe, ed ha tuttora, una sua classe dirigente: un management cooperativo addestrato e funzionale a proiettare la merce varietale sul mercato internazionale, traendone grandi, anzi enormi, utili. E’ un establishment che nel tempo si è dimostrato capace ed efficiente. Preparato e consapevole del ruolo che gli era stato affidato. Lo spiegò con agghiacciante lucidità poco meno di un anno fa, l’ex direttore di Cavit Giacinto Giacomini, nel corso di un happening enoico al Mas dela Fam (ancora lì, a Ravina a due passi dal Fort Knox cooperativo: come mai solo Luca Boscheri, in Trentino, ha il coraggio e la lungimiranza di dare ospitalità a dibattiti spesso scomodi?). E stata una classe dirigente che si è dimostrata all’altezza della situazione e del compito di cui era stata investita: trasformare il vino in merce – con lo strumento micidiale delle denominazioni varietali e non solo di quelle trentine -, per produrre reddito diffuso.

Come tutti i partiti anche il partito-vino si fonda e si legittima sul consenso di massa. E in questa eno-operazione sociale ed economica, il consenso ha avuto un ruolo fondamentale. Questo disegno-orizzonte, che, torno a ripetere, considero progressista, poteva funzionare solo ad una condizione: l’abdicazione, da parte del sistema politico e istituzinale trentino, ad un ruolo di regia e di guida del settore vitivinicolo, ruoli che infatti in questi anni sono stati trasferiti tout court a Ravina, a Mezzocorona e forse, in parte, anche in via Segantini. Ed è qui entra in gioco la risorsa irresistibile del consenso, di cui il personale politico di ogni ordine e grado, per vocazione e per costituzione, è avidamente famelico. E’ il consenso che migliaia di contadini trentini e le loro famiglie, in questi trent’anni hanno assicurato, in cambio di un deciso innalzamento del loro tenore di vita e di una crescita significativa della redditività del loro lavoro in vigna, all’immobile e silenzioso establishment politico-istituzionale. La cui indifferente e muta inazione si può spiegare solo in questo modo.


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