La tendenza a giudicare tutto e tutti fa sì che ci si senta autorizzati a decretare la bellezza e la bruttezza di qualsiasi cosa: una canzone, un libro, una quadro, una persona. Si sputano sentenze pesanti come pietre, come se di fronte ci fosse un materasso ad attutire il colpo. Invece, in genere, dall’altra parte ci sono persone che dolorosamente incassano.
Questa non è un’apologia della gentilezza e delle buone maniere, che per carità non fanno mai male, ma è una riflessione, amara, su quello che si legge e si ascolta in giro: social media, Tv, discorsi tra la gente.
Con noncuranza si afferma che i libri di tale scrittore “fanno schifo”, che il look di quella persona “è orribile”, che la voce di quel cantante è “patetica”.
Ci sono situazioni in cui il giudizio fa parte del gioco, è inevitabile e anche sano. I talent show, per esempio, implicano per definizione una selezione e nessuno mette in discussione il ruolo della giuria.
Un editore o un concorso letterario che riceve migliaia di manoscritti dovrà necessariamente valutarli e nessuno potrà rimproverargli di aver giudicato un libro non adeguato alla pubblicazione. È il suo mestiere. Usa criteri di gusto personale ma anche economici. Certo, la storia insegna che nessuno è perfetto e non sono pochi i casi di grandi successi editoriali rifiutati decine di volte prima di essere mandati in libreria. Ciò che era brutto per uno è diventato bello per molti altri.
Proprio a causa di questa relatività sarebbe piacevole ascoltare qualcuno che semplicemente dica: “Non mi piace”, senza seppellire di aggettivi offensivi l’oggetto del suo disprezzo.
A proposito di questo tema, qualche settimana fa, ho avuto una discussione in Twitter che mi deve essere costata vari defollow, di cui tuttavia, non posso che rallegrarmi.
Qualcuno sosteneva il diritto di dichiarare “brutto” un libro, etichettandolo così in modo definitivo. È naturale che nei nostri pensieri e nelle conversazioni private passi questo vocabolo, ma il rispetto per il prossimo e per il suo lavoro si esprime innanzitutto attraverso il linguaggio che si usa in pubblico. L’estremismo linguistico è sempre pericoloso perché tende a escludere, a separare i buoni dai cattivi, a creare cerchie ristrette e inaccessibili. Avevo posto un esempio volutamente drastico e urticante, esagerato di sicuro, ma che credo illustri in modo chiaro il rischio di ghettizzazione implicito nelle parole: anche i neri, gli ebrei o gli omosessuali erano stati giudicati “brutti”, “sbagliati” “inadeguati” e via con altri epiteti assurdi e irripetibili. E sappiamo come è finita.
Ma chi sono loro per vestire i panni dei giurati? In genere dei signori nessuno, proprio come noi comuni mortali che più modestamente ci accontentiamo di dire “non mi piace”. Noi comuni mortali che quando qualcosa non ci convince ci limitiamo a non mangiarla se è un cibo, a non leggerla né consigliarla se si tratta di un libro, a non ascoltarla se è una canzone, a non frequentarla se è una persona. Un metodo semplice, che rispetta il diritto di ciascuno alle proprie opinioni senza ledere la dignità altrui. Regole di civile convivenza che, se per qualcuno hanno ancora valore, per molti, per troppi, sanno di rancido.
Eppure, lo sapevano anche gli antichi romani che de gustibus non est disputandum.
Se ti è piaciuto questo post, non perderti i prossimi. Clicca qui e iscriviti subito per ricevere tutti gli aggiornamenti
(Credits: immagine giudice - immagine libro infuocato - logo X Factor)