Questo è già un primo insegnamento che riceviamo dal romanzo per capire il nostro Risorgimento; la pochezza di ideali e volontà di gran parte della popolazione del nord di fondare un’unica nazione e che vede in quell’unità solo un tornaconto personale.
De Cataldo ambienta una parte del suo romanzo a Londra e lo fa per avere un controcanto al tema politico che sostanzia tutta la parte italiana del racconto. Infatti da una parte c’è la Londra da feuilleton con le sue passioni d’amore, perversioni sessuali e colpi di scena; dall’altra l’Italia pre e post rivoluzionaria con tutte le sue problematiche. Lorenzo costretto a una doppia vita londinese vede glorie e miserie del movimento rivoluzionario che porterà l’Italia divisa a unirsi sotto il Re di Savoia perdendo per strada nobili ideali e programmi di radicale rinnovamento. Ma quello che più conta nonostante la sua viscida e squallida esistenza di spione e traditore, il protagonista vede pure la separazione tra le avanguardie rivoluzionarie e il popolo, tra borghesi e contadini, spaccatura che non si rinsalderà mai e che vede la vittoria dei moderati che porterà a sanguinose conseguenze: la guerra civile al Sud all’epoca occultata dalla stampa e poi definita dalla storiografia come guerra al brigantaggio.
E questo è il secondo insegnamento che si ricava da questo romanzo, ovvero il Sud lasciato volutamente indietro e anzi saccheggiato e depauperato dall’esercito piemontese e dai politici dell’epoca per rafforzare economicamente travasando le proprie ricchezze a nord.
La figura che ci guida nelle quasi 600 pagine di questo romanzo è una ragazzina calabra che sembra immersa nel mutismo e che i paesani della Sila ritengono dotata di poteri malefici. Striga viene così venduta ad un lord inglese dalle torbidi abitudini, cresce e in una Londra crocevia di esuli mazziniani, politici liberali e signore della buona società votate alla causa dell’unificazione italiana; ma anche una Londra pregna di traffici illeciti da quello dei bambini a quello degli stupefacenti, la Londra dei bassifondi, dei delitti, dei castighi, insomma di quella città che è insieme l’opulenta capitale di un impero e l’inferno dei diseredati. In questo contesto la ragazza diventa una appassionata sostenitrice della causa nazionale e si impegna nel riscatto degli umili.
Lo scrittore affrontando questi temi comprende che il periodo storico affrontato è oggi tabù per buona parte dei cittadini italiani; un periodo volutamente dimenticato sia dalla classe politica che dagli intellettuali e da una parte degli storici di mestiere. Una memoria collettiva che ha cancellato fatti e nomi (d'altronde la polemica di questi giorni se istituire o meno una giornata festiva che celebri il 150 anniversario dell’unificazione lo sta a dimostrare). Ma De Cataldo e altri scrittori che in questo periodo si sono cimentati con il tema sono convinti di trovare alle origini della Stato unitario i difetti costitutivi di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze. Partono tutti da una dato comune inequivocabile la lettura gramsciana del Risorgimento come “rivoluzione passiva”, incompiuta, senza partecipazione popolare con i democratici sconfitti dai moderati piemontesi ma anche incapaci di legare il movimento a un programma di rivoluzione sociale.
Terzo insegnamento in Italia non c’è mai stata la volontà popolare di una rivoluzione e del resto il dna delle genti italiche è privo di una pur minima scintilla che provochi un ribaltamento popolare, dal basso della classe governante; una classe governante che dall’unificazione ad oggi si è sempre tramandata di padre in figlio o meglio di classe sociale in classe sociale al punto che la mancanza del popolo nelle decisioni che contano è del tutto assente.
Anche durante il Risorgimento c’è la buona volontà di uno strato della popolazione, prevalentemente giovani di classi e regioni diverse, che cerca di darsi senza remore alla riuscita della causa ma sono completamente isolati dal corpo sociale del Paese (quello che ancora oggi accade, guardate la protesta degli studenti e dei precari) sia a Nord (la classe operaia non è convinta dell’operazione di unificazione) che a Sud (dove i contadini combattono chi vuol portare benessere alla loro condizione di servi). Ed è qui che il traditore Lorenzo da Londra osserva la perdita d’entusiasmo, il sopravvento di una politica senza ideali, l’Unità raggiunta solo per le concessioni o i disastri di Napoleone III, la sanguinosa repressione nel Meridione e il divario che va prendendo le sembianza di un male minore tra Nord e Sud. Ed intanto proprio a Sud devastato dalla conquista piemontese sta nascendo qualcosa di preoccupante e devastante che diventerà male nazionale: i mille di Garibaldi sia in Sicilia che a Napoli si avvalgono dell’aiuto della malavita organizzata che in Sicilia prende il nome di “Società” (poi si chiamerà Mafia) e a Napoli “Camorra”. Ma se a Napoli passata l’onda dell’entusiasmo unitario i malavitosi vengono arrestati e spediti nella patrie galere, la mafia si rafforza grazie ad un patto con il nuovo potere che forse da allora non è stato più revocato.
Del resto e questa è la quarta considerazione che ricaviamo da questo interessantissimo romanzo, a livello nazionale si afferma una classe politica per cui “ciò che conta in questi tempi di rinnegati e imbecilli, è unicamente il tornaconto personale”.
“I traditori” è la storia di ideali traditi, passioni deluse, del sogno di una Italia diversa mandato a naufragare.