Il volto quasi umano, di Paolo Valesio

Creato il 21 settembre 2010 da Fabry2010

di Gianmaria Annovi

L’ultimo libro di versi di Paolo Valesio, Il volto quasi umano (Bologna, Lombar Key 2009), che raccoglie oltre duecento poesie scritte, con poche eccezioni, tra il 2003 e il 2005, si presenta come un oggetto particolarmente complesso, a partire dal suo titolo. Il “quasi” posto in maniera provocatoria prima dell’aggettivo “umano”, infatti, crea uno spazio di sospensione, una soglia d’arresto per il lettore, che si ritrova di fronte a un nome reso indecidibile. L’avverbio colloca il “volto” che Valesio ci invita a guardare a un passo prima e a un passo dopo dell’umano, tra quello che ancora non ha saputo (o potuto) diventare umano e la dimensione del divino. Tra il sub e l’ultra. Tra il troppo e il non ancora abbastanza. Tra la bassezza della terra e l’irraggiungibilità del cielo. Che questo spazio di sospensione – spazio, dunque, d’interrogazione sulla natura dell’uomo e sulla propria umanità – sia lo spazio del tipo di parola poetica che Valesio ha deciso di abitare lo mostra anche uno dei testi più belli della raccolta:

Per El Greco

Qualcheduno mi ha chiesto nella notte:

Qual è quadro più bello

che tu abbia mai veduto?”

E senza esitazione io ho risposto:

El entierro del conde de Orgaz”,

perché non ho mai visto più vicini

quelli del cielo e quelli della terra.

[La sepoltura del Conte di Orgaz]

Questa poesia dedicata al famoso capolavoro toledano di El Greco, La sepoltura del Conte di Orgaz, non solo rende visibile lo spazio di sospensione cui accennavo, l’accostarsi – senza toccarsi – di cielo e terra, ma lo fa attraverso un’esperienza di natura estetica, il cui il vedere è però assai prossimo alla visione e alla fede nella realtà di quella visione. Scrivo fede perché Il volto quasi umano è anche – e dichiaratamente – la tormentata testimonianza di un credente che si interroga sul come si diventi umani, sul come l’uomo possa raggiungere il pieno della propria umanità, ma anche sul come Dio abbia saputo farsi uomo. Anche la fede, infatti, almeno secondo uno dei filosofi con cui Valesio intrattiene da anni i suoi dialoghi silenziari, Søren Kierkegaard, è una condizione di sospensione: “la corda alla quale si rimane appesi, senza impiccarsi”.i Il volto quasi umano è la parola di questo soggetto fisicamente ed esistenzialmente sospeso, in lotta contro l’apnea dell’essere.

Nella storia della letteratura italiana meno frequentata, e per questo sicuramente battuta da Valesio, che ha peregrinato tra gli infiniti fogli-foglie della foresta filosofico-letteraria occidentale, c’è un’opera teatrale che inizia proprio con un personaggio che parla da impiccato, o meglio, da sospeso. Si tratta di Orgia di Pier Paolo Pasolini, un autore cui Valesio ha dedicato pagine pregnanti e che ancora costituisce il centro delle sue riflessioni sulla letteratura dell’estremo, insieme a Marinetti e d’Annunzio. Il nome di Pasolini non viene qui evocato per caso, infatti, lo si ritrova nel testo intitolato Alba pratalia, che rimanda a Poesia in forma di Rosa:…alba pratalia, alba pratalia, alba pratalia…I prati bianchi!”. Quest’immagine è la metafora – ancora una volta – di una scrittura sospesa: nel caso specifico dell’indovinello veronese, sospesa tra italiano e latino, lingua in transito, in cammino, quasi-lingua. Quella degli alba pratalia è allora anche la scrittura del “pellegrino della mente”, per applicare a Valesio l’espressione da lui riservata a Guido Guglielmi,ii scrittura mentale, bianco su bianco, come sembra suggerirci in Ecco un vivente arazzo d’improvviso, 1, memore forse dellacette blanche agonie / par l’espace infligéedel Cygne di Mallarmé:

Come si distinguono i due cigni

dentro il banco di nebbia in fondo al lago?

Perché risalta il loro candore

dentro il più sfilacciato biancore.

Quella degli alba pratalia è dunque anche l’immagine di una scrittura come delirio bianco, soprattutto nel senso etimologico di delirare, “uscire dal solco” – quello bianco della pagina – per ritrovarsi fuori, nella vita:

quando scrive lui strascina una pietra

da un angolo del campo verso l’altro

lasciando un solco sull’erba.

[Alba pratalia, 1-3]

È, quella di questi versi di Valesio, un’immagine affaticata e sisifea del Solo et pensoso petrarchesco, dove il moto fisico nel campo è al tempo stesso mozione poetica. Proprio Petrarca è forse il più gigantesco tra i volti-fantasma dell’opera valesiana. Si legga, a conferma, quanto egli scrive nella Nota al volume: “la prima parte […] descrive quei materiali sparsi che un soggetto raccoglie preparandosi a scrivere un resoconto di se stesso” (p.19). L’eco degli sparsi frammenti petrarcheschi, tra “fragmenta” e “rime sparse”, è evidente.

Ciò che mi pare sia andato rincorrendo Valesio in quindici libri di poesia, compreso quest’ultimo, è proprio la forma di un canzoniere assoluto: canzoniere non come raccolta di forme ma come forma che raccoglie il resoconto di sé attraverso scaglie d’esistenza, tanto più piccole e insignificanti tanto più fortemente significate, fatte segni, indicazioni per quel pellegrinaggio mentale cui si accennava pocanzi. Quella del frammento d’esistenza è, di fatto, l’unica forma metrica che conosca la poesia di Valesio in questa sua fase, anche a dispetto di quanto abbia scritto il diretto interessato nella sua Nota, in merito alla struttura dei testi:

Ho voluto finora, nelle mie poesie-dardi, raccogliere in una entità unitaria il testo della poesia in senso stretto insieme con gli elementi che di solito si definiscono para-(o peri-)testuali, e che qui invece sono pienamente testuali. Insomma, tutti gli elementi di ciascuna delle poesie che costituiscono la maggioranza in questo libro – il titolo, l’epigrafe o motto, la dedica, la indicazione cronotopica finale […] perfino le poche note esplicative a piè di pagina – concorrono a costituire il testo della poesia, senza fondamentale distinzione tra un centro e un contorno. (p. 17)

Data questa precisazione dettagliata, il lettore si aspetterebbe di trovare nella raccolta copiosi elementi para- o peri- testuali, invece, su oltre duecento testi, s’incontrano solamente dieci note, altrettante epigrafi e una ventina di dediche. Non molto, pare, per giustificare quella che parrebbe una vera e propria dichiarazione di poetica. Non siamo però di fronte ad una svista: anche questo elemento auto-esegetico va inteso come delirio del soggetto, qualcosa che, nell’intento di segnare un percorso definito, devia, prende altra via. Quello che emerge in questa nota è così il tentativo inconscio del soggetto scrivente di giustificare retoricamente ciò che appare, piuttosto, come la tendenza generale delle propria poesia: il superamento della distinzione “tra un centro e un contorno.”

Per capire meglio cosa intendo, occorre considerare il contorno testuale in maniera radicale – ossia letterale – come altro del testo. Come ciò da cui lo scritto-centro è circondato e assediato: la vita. È questa l’immensa aspirazione del canzoniere valesiano, infinito dunque quanto può esserlo una stele di Brancusi, la non separazione tra testo ed esistenza. Lo spaesamento che coglie il prefatore del volume, Davide Rondoni, di fronte a uno spazio “dove la poesia non è più poesia, o meglio diventa la propria continua e per così dire salutare oltranza,” (p. 11) è l’effetto radicalmente straniante di un’opera che non vuole distinguersi dalla vita, ossia che non si vuole perfetta, ma in cerca della propria realizzazione. Date, note, luoghi, epigrafi, dediche, non sono che il dito retorico dietro il quale il soggetto nasconde la propria necessità di radicare il testo nel vissuto, di incarnarlo. L’anima, insomma, come la pagina, deve essere sfondata:

Ciò ch’è dentro è inferiore a ciò che è fuori:

bisogna sfondare

la tenda dell’anima

perché il livello interiore

salga all’altezza

della esterna bellezza,

della bontà circostante.

Laghetto

18 Giugno 2003

[Anti-introspezione]

Questa necessità di non separare estetico ed esistenziale (che si ritrova forse in un’idea di Scrittura come Verbo, Parola concepita per ricadere nell’esistere) produce stranamente effetti molto prossimi a quelli riscontrabili nell’ultima stagione poetica pasoliniana, quella scandalosa di Trasumanar e organizzar. Il nome di Pasolini non lo s’è dunque fatto precedentemente invano. Anche in Trasumanar, innanzitutto, date ed elementi paratestuali sono inglobati in componimenti che sembrano costantemente e sfrontatamente violare formalmente il limite del poetico convenzionale. Anche quella di Valesio è una poesia che oscilla (come il volto sottoposto al “quasi” del titolo), che si muove anche al di sopra e al di sotto del poetico: tra saggio e appunto, folgorazione e annotazione, riflessione filosofica e pensiero nella doccia. Trasumanare sembra allora proprio il verbo più adatto a descrivere parte dell’operazione compiuta ne Il volto quasi umano. Che cos’è, infatti, la trasumanazione pasoliniana se non il superarsi del soggetto nell’offerta cruda, disperata e non mediata di un personaggio messo a nudo nella sua debolezza, nei suoi dubbi di essere umano? Facendosi personaggio, anche Valesio rende il lettore partecipe delle peripezie di un soggetto oggettivato (“O diverso individuo, / raccontami le tue peripezie,” Semivigilie), che passa però alla terza persona, al “lui”, distaccandosi in questo modo dall’operazione pasoliniana, dove il personaggio non smette mai d’identificarsi con l’autore. Ecco allora parzialmente spiegata la ragione per cui il titolo della sezione più imponente del Volto è proprio Il personaggio della vita, un titolo non privo d’implicazioni. Infatti, se la vita si rivela abitata di personaggi, ci ha insegnato Pirandello a suo tempo, essa non può che essere testo: opera. Scrittura ed esistenza si confondono, si assestano in uno spazio sospeso, in un quasi.

Per tornare a quanto si diceva all’inizio, anche la definizione che l’autore fornisce dei propri componimenti, quella di “dardi”, da intendersi come “giaculatoria, vale a dire: preghiera breve lanciata verso/contro il cielo come un dardo” (p. 15) è immagine di questa sospensione che sembra costituire uno dei fili conduttori di tutta la raccolta. E lo è, in quanto lanciare qualcosa contro il cielo significa – di fatto – collocarla nell’infinito. Il personaggio della poesia di Valesio è questo dardo sospeso nell’infinito. Tra il troppo del cielo e il troppo poco della vita. È l’aspirazione a farsi confine, quel confine invisibile della tela di El Greco, dove cielo e terra s’avvicinano senza mai davvero toccarsi.

iSøren Kierkegaard, Aforismi e pensieri. ed. M. Baldini, Roma: Newton & Compton, 1995.

ii Paolo Valesio, Guido Guglielmi, pellegrino della mente, in Moderna, V/2, 2003.



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