Ilaria Gaspari – Etica dell’acquario

Creato il 04 settembre 2015 da Povna @povna

Agosto è stato un mese di letture belle, ma rade, irrimediabilmente. Il motivo è da cercarsi nella rutilante socialità che ne ha caratterizzato i suoi due buoni terzi – socialità che, come ricorda Connie (che degli scambi è stata peraltro assai protagonista), se dà grande soddisfazione all’esistenza, tende a tingere un po’ di rosso, viceversa, il conto delle pagine in lettura.
Rientrata alla base, come ha detto, ma con la scuola ancora a mezzo servizio, la ‘povna dedica dunque il suo settembre anche a un po’ di recupero: finire un romanzo che aspetta da oramai troppe settimane e giorni (ma che non la porta via, questo è evidente), ma, soprattutto, un bel po’ di nuovi arrivi. Appartiene a questo gruppo Etica dell’acquario di Ilaria Gaspari, un romanzo di cui la ‘povna aveva avuto notizia dell’imminente uscita (il 3 settembre) in anteprima e che – per una serie di ottime ragioni – la interessava moltissimo. Ieri dunque, dopo la piscina, ha pedalato in libreria, ha preso atto, con una risata, che insieme a lei c’erano altre cinque persone che erano lì per lo stesso libro, prevedibilmente (ma non si è stupita, perché ci sono cose che si dipanano in aeternum, come le disse il suo vecchio professore Bla al momento della proclamazione della sua tesi di diploma a Hogwarts, sulla Tenzone tra Forese Donati e Dante), poi è risalita in bici, è arrivata a casa e – lottando contro l’assalto imperioso di ricordi perturbanti del passato (da un lato) o quello querulo delle incombenze ampiamente procrastinabili del tempo presente (dall’altro) – per farla breve se lo è letto nel giro di mezzo pomeriggio e una serata.
Poiché l’ha colpita, e molto – per una serie di motivi che raccontare sarebbe troppo personale e voyeristico – decide quindi di spurgare il turbamento nel più privilegiato dei modi che conosce. Vale a dire, scrivendoci sopra. Ovviamente, anche a beneficio di parecchi e nascosti narratari.

Romanzo trasversale, per molti aspetti, questa opera di esordio, ma non troppo (perché l’e-book Morte per acqua, in vendita in tutti i retailers online, è con ogni evidenza una prima versione dello stesso testo), mutevole e mutante come i pesci della fontana del collegio Timpano che la voce narrante (nonché protagonista, Gaia, nome antifrastico rispetto alla vicenda, ma assai parlante rispetto a quello proprio dell’autrice) assume a epitome dei normalisti: creature strane, costrette contro-natura a vivere in uno spazio minuscolo (acquario improvvisato come la fontana stessa) e per ciò stesso costrette, loro malgrado, a imparare a mutare e a mutarsi a seguito di noncuranti esperimenti sulla loro presunta intelligenza, con ciò (re)-imparando (se proprio non si vuole scomodare Hobbes e l’homo homini lupus – ma l’autrice è pur sempre una filosofa) le leggi darwiniane di lotta per la vita e animale crudeltà.
Romanzo di memoria, innanzi tutto, perché nonostante la preterizione d’ordinanza avverta che ogni riferimento a fatti o persone note sia puramente casuale, il filo è quello della ricostruzione del passato, della metacronia che ritorna, pur senza bisogno di essere proustiana (perché alla fine non c’è nessuna rivelazione, o solo monca) e con ben poca estasi. Modello pervasivo e invadente, anche, perché – ed è questo uno dei primi tratti che salta all’occhio – questa metacronia, pur personale, di Gaia, descrive in realtà un habitus mentale di schietta appartenenza, e che appartiene – la voce narrante in questo è esplicita – tanto al gruppo generazionale che le fa da contorno nel pellegrinaggio sentimentale di ambigua valenza, quanto a tutti i ‘pesci’ modello di eccellenza che, come lei, prima o dopo, hanno avuto il fato di vivere la sua stessa esperienza, come studenti ordinari alla Scuola Normale Superiore, a Pisa. In questo, quel cerchio chiuso e asfittico, che la voce narrante mostra di detestare (esistenzialmente) e disprezzare (eticamente), la casta (non) privilegiata dei normalisti, si dimostra in realtà il primo e consapevole narratario implicito di riferimento, perché è abbastanza evidente che è proprio sull’affinità elettiva di questa discussa, ma non discutibile, appartenenza che si basa il primo livello di attendibilità richiesto dal patto narrativo.
La storia, in altre parole, pur leggibile a livelli diversi, si presta a essere interpretata doverosamente da chi l’esperienza della Normale, e di Pisa, l’ha vissuta in quel modo lì, e proprio per questo è in grado di capire i mille riferimenti aneddotici, le idiosincrasie, i vezzi linguistici, la topografia, il collegio, la biblioteca, la mensa, con una autopsia dell’esperienza che travalica, nell’intuizione di una sensazione riscoperta, le pur articolate descrizioni che di ambienti e situazioni vengono offerte per il lettore non iniziato.
Una volta compreso questo meccanismo di costruzione del testo – che è essenziale – è possibile passare al contenuto vero e proprio del romanzo. Da questo punto di vista, un altro genere si affaccia, oltre a quello della memoria, a fare da ossatura al flusso dei ricordi: la trama (pur blanda) del romanzo poliziesco, che – seguendo le spire del cosiddetto giallo metafisico – ci ricorda molto opportunamente (pur se in maniera un po’ scolastica) la definizione del genere applicato alla contemporaneità data da Holquist, nella quale “è la vita, non la morte, che deve essere risolta”. L’autrice sviluppa intorno a questo concetto un gioco di parole che ritorna al passato (doloroso, e, forse, non privo di quella esattezza biografica pur negata in soglia) per provare a dipanarlo, con ciò provando anche a svelare l'(auto)-inganno subito, al momento della selezione di eccellenza, dai giovani normalisti-pesci rossi, condannati a una formazione perfetta per entrare senza rischi, una volta usciti da Pisa, nel sistema economico dell’esistenza, ma in realtà costretti, in una variazione nemmeno troppo nascosta del patto con il diavolo, a sacrificare a questo – in un sovvertimento di valori presentato come anti-biologico (la Normale è un mondo dove i bravissimi, ma sfigati dell’adolescenza, prendono il comando, con ciò vendicandosi di chi, bravo e bello, nel mondo del liceo li ha fatti passare da frustrati) – gli anni migliori della vita. Il tema del collegio, esclusivo e asfittico – è stato già notato – rientra ovviamente tra i clichés di riferimento: il Törless prima e innanzi tutto, ma anche Kipling – per andare alle origini; ma non bisogna dimenticare nemmeno le variazioni contemporanee sul tema: da Tom Wolfe a Eugenides, fino a Skippy muore di Murray.
Il collegio di elezione è dunque l’acquario nel quale si gioca ogni esperimento, un mondo crudele, dove le regole, scritte e istituzionali (quelle richieste per restarvi, per continuare ad appartenere), ma anche non scritte (quelle fatte proprie dalla maggioranza degli studenti) sono tassative e ferree, e segnano, proprio malgrado, per la vita. Due sembrano, calvinianamente, secondo la fine delle Città invisibili, le possibilità di scelta proposte dall’autrice, a questo punto: appartenere all’inferno, in tutti i sensi, o cercare di chiamarsene fuori già mentre si è dentro – una soluzione, questa, che presenta però fin da subito tutti i conti di un carico di emarginazione socio-intellettuale. Si tratta di nodi destinati a venire al pettine comunque – è questo il senso della reunion che consumano i quattro amici protagonisti, chiamati a ritornare a Pisa dieci anni dopo dal suicidio ambiguo di una compagna di studi, nel quale sembrano essere, a vario titolo, coinvolti. Ed è in questa parte contemporanea che il senso dell’etica del titolo si consuma nella sua interpretazione più ambigua e non univoca. L’esperienza della Normale, questo pare infine uno dei messaggi, ti rende comunque manipolatore a prescindere, confezionandoti strumenti affilatissimi per raccontare una realtà a propria immagine, e per questo abilmente contraffabile (e contraffatta), senza scampo.
Sostenuta da un’idea decisamente buona nella gestione del punto di vista, la storia raccontata da Ilaria Gaspari diventa così quella di un interessante esperimento di entomologia sociale. Si tratta di un ritratto fedele, da ogni prospettiva, di che cosa sia la Scuola Normale? Ovviamente no, e forse non è nemmeno ciò che il romanzo cerca. Perché a essere volutamente ristretto è l’assunto calviniano di partenza (le vie per sopravvivere al collegio non sono solo due, ma molte possibili – e in ultimo, ma pure nel mezzo, la contrapposizione tra i genii nerd inadatti alla vita vera, e coloro che si oppongono all’acquario, ricordando il mondo fuori in nome della propria carica orgogliosamente vitalistica si dimostra assai schematica). E tuttavia la storia è, a molti livelli – anche a fare strame delle molte chiavi di lettura privilegiate – specchio fedele di un punto di vista, non esclusivo (come forse si pone), ma possibile. E questo resta, indubbiamente, a libro chiuso, un buon tema su cui meditare.

(per il Venerdì del libro di Homemademamma).