Iliade, 1 – 5

Creato il 11 agosto 2014 da Giuseppe Martella @GiuseppeMartel1

Sto rileggendo, a distanza di venti anni dalla prima volta in cui ho affondato la testa in quelle pagine, l’Iliade. Di volta in volta, senza una scadenza precisa o pensata, riporterò delle impressioni. Niente di esaustivo, solo quanto mi è rimasto negli occhi, nella testa, nel petto.

I-IV Finora ho capito che Paride è un furbacchione (si prende i doni di Afrodite e Apollo senza alcun senso di responsabilità), Elena non è che vorrebbe giacere con lui più di tanto, Zeus non tiene fede ai patti (come anche Paride, del resto) e Menelao per ora (sono ai primi cento versi proprio del quarto libro) è cornuto e ferito, lievemente, a una coscia. Su tutto, l’ombra scura di luce di Febo, che mi sembra la divinità più lontana, altera, sulfurea dell’Olimpo. 

IV-V Quando Omero scrive della morte di un soldato (poco importa se acheo o troiano) usa questa espressione: la notte gli cade sulla vista. Agamennone passa in rassegna tutte le sue genti e ingaggia il primo vero scontro del poema.

Tra tutti i troiani spicca Enea. Diomede, illuminato da Atena, vuole ucciderlo, ma Afrodite (madre di Enea) lo nasconde sotto il proprio peplo. Diomede è una furia e ferisce Afrodite alla mano. Interviene allora Apollo, che intima a Diomede di non mettersi sullo stesso livello di un dio. Apollo ringhia più che parlare.

Stupisce la precisione chirurgica con cui Omero (Omero o chi per lui) descriva le bocche sfondate dalle lance con le punte in bronzo, i denti frantumati, le spalle divelte dai colli, il clangore che le armature producono quando i toraci trafitti cadono a terra senza vita, appunto senza più luce.

Il Panico, il Terrore e la Furia (Deimòs, Fòbos e Eris) impazzano. La stessa Afrodite, ferita da Diomede, sanguina. Ma propriamente non sanguina: rilascia un liquido chiamato “ichòr”, una parola che sfugge ancora a ogni etimologia. Come a dire che queste divinità ci eludono ancora nella loro intima natura. Come noi a noi stessi.


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