Professor Sapelli, qual è stato l’errore fatale che ha provocato il disastro Ilva? «L’errore è stato non portare avanti l’attenzione che l’Iri pubblica aveva nei confronti dell’ambiente. Gran parte dell’inquinamento dell’Ilva deriva dalla grande massa di materiali ferrosi depositati all’aperto. Una cosa che non ho mai visto fare, in nessuna acciaieria, eppure le conoscevo bene. Quegli enormi cumuli lasciati esposti ai venti sono stati la vera causa dei danni ambientali subìti dalle famiglie di Taranto. Mi chiedo come mai nessuno prima abbia detto nulla, neanche i giudici».
La magistratura ha agito dopo le evidenze sanitarie, le malattie e le morti. «Questa è la negazione della medicina del lavoro, che agisce soprattutto preventivamente. Non si possono aspettare le morti per agire». Le responsabilità sono politiche? «Le responsabilità sono di quell’apparato istituzionale di controllo, come le Regioni e le Asl, che potevano vedere e non hanno visto. Ma continuare a cercare il colpevole serve a ben poco oggi».
Difatti, meglio chiedersi cosa davvero si può fare a questo punto. «Ho ascoltato con molta serenità quello che hanno detto Letta e Zanonato, e mi pare si vada nella giusta direzione: garantire in primo luogo la continuità produttiva e capire cosa davvero è l’Ilva per il Paese. Il governo si sta muovendo bene. Mi fa rabbia vedere come nessuno oggi possieda una vera cultura industriale. La siderurgia non serve solo a se stessa, ma rifornisce tutta la meccanica. L’Italia è ancora un forte Paese manifatturiero, e una parte importante di questo settore deriva dalla siderurgia a ciclo integrale. Abbiamo già perso Bagnoli, che è stato un colpo mortale (consiglio di leggere «La dismissione» di Ermanno Rea) alla meccanica e all’edilizia. Questo è la siderurgia».
Salvare l’Ilva vuol dire nazionalizzarla? «In linea di massima, di fronte a una situazione così degenerata e in più con un conflitto aperto con la magistratura, mi pare difficile la strada del commissariamento. Esiste poi il modello Obama, che ha dato in prestito dei fondi. Ma in questo caso ci vorrebbe una proprietà, che oggi è decapitata dei suoi beni e anche delegittimata. Resta la nazionalizzazione secondo il modello delle partecipazioni statali, in cui l’Italia è stata maestra in Europa. Il che vuol dire l’ingresso del pubblico, ma non escludere il rientro del privato in compartecipazione. La strada è percorribile anche per l’ottimo comportamento del sindacato e la sostanziale unità di vedute tra lavoratori e governo».
I Riva sono comunque esclusi. «Questa vicenda insegna che quando si privatizza, bisogna farlo bene. Certo, ormai la famiglia Riva è delegittimata a continuare. La palla passa al governo, che ha giustamente evitato di mettere in contrapposizione ambiente e industria, facendo un’ottima scelta. Ora però bisogna procedere in fretta, perché nella profonda recessione in cui siamo i tempi sono strettissimi. Oggi se si perdono quote di mercato si è fuori per sempre». Per l’intervento pubblico, e la bonifica, si potranno usare gli 8 miliardi confiscati? «Immagino che i Riva faranno ricorso, non farei molto affidamento su quelle somme. Se ci si infila nel contenzioso civilistico, non se ne esce più. Se l’altoforno non si ferma, si possono studiare molte soluzioni tecniche: gli avvocati servono a questo. Quanto alla bonifica, ripeto: il danno maggiore deriva dal deposito. Non costa moltissimo coprire quel materiale».
Intervista di Giulio Sapelli rilasciata al quotidiano l’Unità