ILVA: Una catastrofe perdere l’acciaio, entri lo Stato con partner privati

Creato il 04 giugno 2013 da Informazionescorretta

«L’importante è non proseguire la caccia al colpevole e guardare avanti. Se qualcuno vuole costruire ghigliottine per le strade di Taranto, faccia pure. Ma quello che serve all’Italia è salvare la siderurgia a ciclo integrale». Giulio Sapelli oggi guarda da lontano il caso Ilva, ma una trentina di anni fa aveva visitato gli stabilimenti, e conosceva bene le condizioni di lavoro degli operai. Si chiede come sia stato possibile arrivare a questo punto, senza che nessuno abbia agito prima, magistratura inclusa. «Con lo Stato padrone sarebbe stato diverso», assicura, prefigurando l’ingresso pubblico nel capitale come unica via d’uscita praticabile. Ma l’altro pilastro del Sapelli pensiero è tutto rivolto al futuro: non impantanarsi nei cavilli giuridici (quelli riguardano le responsabilità della famiglia Riva), e guardare al sistema Paese. «Se l’Italia dovesse importare acciaio dall’estero sarebbe una catastrofe. In termini economici costerebbe circa due punti di Pil al Paese» (una trentina di miliardi). Su questo «il governo si è mosso bene, sia Letta che Zanonato hanno indicato priorità importanti».

Professor Sapelli, qual è stato l’errore fatale che ha provocato il disastro Ilva? «L’errore è stato non portare avanti l’attenzione che l’Iri pubblica aveva nei confronti dell’ambiente. Gran parte dell’inquinamento dell’Ilva deriva dalla grande massa di materiali ferrosi depositati all’aperto. Una cosa che non ho mai visto fare, in nessuna acciaieria, eppure le conoscevo bene. Quegli enormi cumuli lasciati esposti ai venti sono stati la vera causa dei danni ambientali subìti dalle famiglie di Taranto. Mi chiedo come mai nessuno prima abbia detto nulla, neanche i giudici».

La magistratura ha agito dopo le evidenze sanitarie, le malattie e le morti. «Questa è la negazione della medicina del lavoro, che agisce soprattutto preventivamente. Non si possono aspettare le morti per agire». Le responsabilità sono politiche? «Le responsabilità sono di quell’apparato istituzionale di controllo, come le Regioni e le Asl, che potevano vedere e non hanno visto. Ma continuare a cercare il colpevole serve a ben poco oggi».

Difatti, meglio chiedersi cosa davvero si può fare a questo punto. «Ho ascoltato con molta serenità quello che hanno detto Letta e Zanonato, e mi pare si vada nella giusta direzione: garantire in primo luogo la continuità produttiva e capire cosa davvero è l’Ilva per il Paese. Il governo si sta muovendo bene. Mi fa rabbia vedere come nessuno oggi possieda una vera cultura industriale. La siderurgia non serve solo a se stessa, ma rifornisce tutta la meccanica. L’Italia è ancora un forte Paese manifatturiero, e una parte importante di questo settore deriva dalla siderurgia a ciclo integrale. Abbiamo già perso Bagnoli, che è stato un colpo mortale (consiglio di leggere «La dismissione» di Ermanno Rea) alla meccanica e all’edilizia. Questo è la siderurgia».

Salvare l’Ilva vuol dire nazionalizzarla? «In linea di massima, di fronte a una situazione così degenerata e in più con un conflitto aperto con la magistratura, mi pare difficile la strada del commissariamento. Esiste poi il modello Obama, che ha dato in prestito dei fondi. Ma in questo caso ci vorrebbe una proprietà, che oggi è decapitata dei suoi beni e anche delegittimata. Resta la nazionalizzazione secondo il modello delle partecipazioni statali, in cui l’Italia è stata maestra in Europa. Il che vuol dire l’ingresso del pubblico, ma non escludere il rientro del privato in compartecipazione. La strada è percorribile anche per l’ottimo comportamento del sindacato e la sostanziale unità di vedute tra lavoratori e governo».

I Riva sono comunque esclusi. «Questa vicenda insegna che quando si privatizza, bisogna farlo bene. Certo, ormai la famiglia Riva è delegittimata a continuare. La palla passa al governo, che ha giustamente evitato di mettere in contrapposizione ambiente e industria, facendo un’ottima scelta. Ora però bisogna procedere in fretta, perché nella profonda recessione in cui siamo i tempi sono strettissimi. Oggi se si perdono quote di mercato si è fuori per sempre». Per l’intervento pubblico, e la bonifica, si potranno usare gli 8 miliardi confiscati? «Immagino che i Riva faranno ricorso, non farei molto affidamento su quelle somme. Se ci si infila nel contenzioso civilistico, non se ne esce più. Se l’altoforno non si ferma, si possono studiare molte soluzioni tecniche: gli avvocati servono a questo. Quanto alla bonifica, ripeto: il danno maggiore deriva dal deposito. Non costa moltissimo coprire quel materiale».

Intervista di Giulio Sapelli rilasciata al quotidiano l’Unità


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